Era una notizia che non stupisce nessuno. La morte del primo detenuto del carcere della Dozza, a causa del Coronavirus, era “annunciata” da tempo: la
facevano prevedere le condizioni di grave sovraffollamento e le carenze igienico-sanitarie che caratterizzano la Cassa Circondariale di Bologna, così come tutte le galere italiane.
L’assistenza sanitaria interna, già normalmente carente, è ancora di più inadeguata di fronte all’emergenza causata dalla pandemia, quindi, a fronte di questa situazione, non è realisticamente possibile adottare quelle misure che sono indispensabili per evitare i contagi.
Dopo le proteste di marzo molte associazioni che si occupano dei diritti dei detenuti sono intervenute, insieme a diversi giuristi, per sollecitare l’adozione di un provvedimento di amnistia e indulto, per far uscire il maggior numero di detenuti, a partire da quelli anziani e malati, strada principale per evitare quello che, da più parti, viene definito “rischio carneficina”
L’ultimo decreto legge del governo (D. L. 17 marzo 2020 n. 18) ha introdotto un’ipotesi di detenzione domiciliare “speciale” fino al 30 giugno 2020, per i detenuti a cui rimane una pena non superiore a 18 mesi, con l’impiego del braccialetto elettronico. Già con questo provvedimento saranno pochissimi i detenuti che potranno lasciare le carceri, di gran lunga meno degli oltre 14 mila che andrebbero scarcerati per riportare gli istituti di pena a una situazione di “normalità” e rendere possibile il contrasto di casi di Coronavirus all’interno. Inoltre, nel decreto del governo, mancano norme che tengano conto delle condizioni di salute dei detenuti che, se dovessero contrarre il covid-19, potrebbero non salvarsi.
A tutte queste criticità va aggiunta una questione non di poco conto: per poter beneficiare delle misure alternative è necessario che i detenuti dispongano di domicili idonei, condizione che molti non hanno.
A Bologna gli alloggi da destinare a detenuti in misure alternative (gestiti da associazioni o da comunità religiose) sono pochi e quei pochi sono pieni da tempo. Quindi, a causa di questa situazione, il decreto del governo perde di ulteriore efficacia, in quanto i detenuti che hanno la disponibilità di un domicilio familiare sono una esigua minoranza.
Reperire forme di residenza idonee per ospitare persone scarcerate per via del decreto dovrebbe essere un compito della comunità intera, in primo luogo delle istituzioni locali.
In consiglio comunale, invece, i consiglieri di uno stesso gruppo, quello del PD, si baloccano sul fatto che prima di mettere a disposizione spazi per misure alternative per i detenuti, questo potrà arrivare solo dopo le “prioritarie esigenze dei cittadini di Bologna”. E’ la stessa logica del “prima gli italiani”, in chiave anti-migranti, su cui si è trastullata la destra per anni, che ha peggiorato sempre le cose, lasciando tutti i soggetti più deboli nella loro situazione di disagio e di povertà.
Nelle sale di Palazzo d’Accursio è stato detto che “bisogna escludere anche solo l’ipotesi di mettere in ballo l’edilizia popolare o spazi pubblici”, solo quelli eventualmente recuperati “dal privato e dal Terzo settore” potranno semmai essere messi a disposizione.
Morale della favola: tutto rimarrà come prima e, se in carcere in molti ci lasceranno le penne, questo non sembra preoccupare più di tanto l’attuale sgangherata classe politica.
E allora noi ci prendiamo la responsabilità di indicare due spazi che potrebbero essere utilizzati con le finalità di cui abbiamo parlato. Questi posti letto, per anni non occupati da nessuno, non porterebbero via alloggi a “persone in lista di attesa nelle graduatorie ERP, che hanno diritto ma non riescono a entrare”, perché tutti si sono dimenticati dell’esistenza di quegli immobili.
IL PRIMO FABBRICATO
E’ l’ex Ferrohotel di Via Casarini, in città noto a molti per l’esperienza dello “Scalo Internazionale Migranti”, durata dal 2002 al 2005.
Dopo lo sgombero, l’immobile fu ristrutturato ed è stato utilizzato (dopo un accordo tra Ferrovie di Stato e Polizia di Stato) come dormitorio per gli agenti della Polfer. A questa finalità è stato adibito fino alla fine del 2016, poi FS e PS hanno deciso di spostare gli agenti della Polfer al Ferrohotel dello Scalo Ferroviario di San Donato.
Da allora l’immobile non è stato più utilizzato al pieno delle sue potenzialità. Dopo aver fatto alcune visite, abbiamo notato tutto chiuso e spento, salvo, al piano terra, dove c’era luce accesa. Tutte le altre stanze avevano le finestre chiuse e le luci spente.
Quello di via Casarini è uno stabile di circa 1. 700 mq. L’immobile è su tre livelli e si adatta perfettamente a residenza collettiva in quanto è già composto di 41 camere (di cui 21 al piano terra e 20 al 1° piano) con 1 bagno condiviso ogni 2 camere, reception con salottino e un seminterrato di circa 600 mq da poter destinare alle sale comuni, cucina, bar e altri
servizi.
IL SECONDO FABBRICATO
Siamo sempre nell’area della Città Metropolitana di Bologna. In Via Tolara di Sopra, in località Settefonti, nel territorio del Comune di Ozzano dell’Emilia, proprio di fianco a Villa Torre (il Centro Visita del Parco dei Gessi), c’è un edificio pressoché inutilizzato da moltissimi anni, dove un tempo si tenevano i corsi di formazione professionale dell’ERSA (ex Ente Regionale per lo sviluppo agricolo). L’immobile è di proprietà della Regione Emilia-Romagna, è composto da diverse stanze (per un totale di 25 posti letto), un salone grande dove si svolgevano i corsi, usato anche come sala mensa, e una cucina attrezzata per pranzi collettivi. La struttura viene usata pochissime volte nell’arco dell’anno, soprattutto per ospitare in qualche fine settimana comitive di ragazzi che fanno trekking sui Calanchi dell’Abbadessa.
Qualche anno fa venne discussa l’ipotesi di utilizzare l’edificio come residenza collettiva, con una serie di posti letto destinati a detenuti in misure alternative o a ex detenuti senza casa che lavorano in fabbriche delle zone industriali di Ozzano. La proposta arrivò, nel mandato scorso, all’attenzione della Giunta Regionale, ma non si produsse nulla di concreto.
Su queste due ipotesi si può lavorare in tempi rapidi. Potrebbero essere soluzioni concrete par dare una risposta a chi avrebbe la possibilità di uscire dal carcere, ma non gli è concesso a causa della condizione di non avere un domicilio.
Per intraprendere questa strada è necessaria una volontà politica chiara, ma questa o la si ha oppure non è possibile comprarla al supermercato, neppure se si fa la fila, a distanza di un metro e con la mascherina.
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