VENERDI’ 13 OTTOBRE’023 alle 18,30
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Nell’ambito delle iniziative per i vent’anni dello spazio libero autogestito di via Paolo Fabbri 110, Vag61 e il Centro di documentazione dei movimenti “Francesco Lorusso – Carlo Giuliani” presentano il libro “Lo sgherru dell’autunno caldo”, di Valerio Monteventi (Derive Approdi, 2023)
Oltre all’autore saranno presenti:
– Francesca Coin (sociologa “militante” che si occupa di lavoro e diseguaglianze. Insegna nel Centro di Competenze Lavoro Welfare Società del Dipartimento di Economia Aziendale Sanità e Sociale – Deass della Supsi, in Svizzera. I suoi articoli sono stati pubblicati su varie testate, la sua ultima produzione editoriale “Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita”)
– Ilaria Cauzzi (attivista del Laboratorio Crash – Ex Centrale)
– Alberto Sebastiani (ricercatore universitario, critico letterario, giornalista, autore del libro “Nicolas Eymerich. Il lettore e l’immaginario in Valerio Evangelisti”, coautore con Marino Severini dei Gang di “Quel giorno che Dio era malato”)
– Andrea Rapini (docente di Storia Contemporanea all’Università di Modena e Reggio Emilia. Si è occupato di storia e memoria dell’antifascismo, stato sociale, storia dell’impresa e del lavoro. È autore del recente “A Social History of Administrative Science in Italy. Planning a State of Happiness from Liberalism to Fascism”)
– durante la serata: degustazione di vini naturali e biologici con i produttori dell’azienda agricola Pizzillo Emanuele di Montecalvo Irpino (vini ‘Minosse’, ‘Brukaliffo’, ‘Pankopink’) e della cantina Santiuorio di San Martino Valle Caudina (vini ‘Mangiaguerra, ‘Pàstino’, ‘Antemide’)
– dopo la presentazione: cena sociale a cura della Brigata Cucinieri della Cirenaica
– a seguire, alle 21,30: concerto dei Gang
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Lo sgherru dell’autunno caldo
Decine e decine di schede rinvenute all’Archivio di Stato di Bologna hanno fatto scattare la molla per dare il via a questo libro. Si trattava di rapporti quasi quotidiani che dalla questura o dalla legione dei carabinieri finivano sul tavolo del prefetto che passava poi le carte al Ministero dell’Interno. In quei rendiconti si parlava di scioperi, di picchetti, di scontri coi crumiri, di incontri ai cancelli tra operai e studenti, di cortei interni e cortei in strada, di risse tra fascisti e antifascisti, di rossi e neri. Gli anni erano quelli del lungo autunno caldo italiano (1969/70/71), lo scenario era quello delle fabbriche in lotta, delle università e degli istituti delle medie superiori. In primo luogo l’attenzione era puntata sulla Ducati Elettrotecnica, il più grande stabilimento operaio bolognese dove, in mezzo a una composizione di forza lavoro soprattutto femminile, nacque il primo comitato di base della città e dove scoppiarono due vertenze aziendali durissime.
E’ curioso e a suo modo sorprendente il fatto che, sempre tra gli atti della Prefettura custoditi presso l’Archivio di Stato di Bologna, siano state rinvenute qualche anno fa schede in cui si documenta la sorveglianza esercitata dalla Questura sugli internazionalisti negli anni ’70 dell’Ottocento, circa cento anni prima delle vicende raccontate in questo libro. E in particolare su un giovane romagnolo trapiantatosi allora in città: Giovanni Pascoli.
Quelle carte hanno permesso di tracciare una mappa dei luoghi frequentati dai militanti strettamente legati al futuro poeta, raccontandoci il periodo in cui Pascoli frequentava la Facoltà di Lettere dell’Ateneo bolognese. In quegli anni, all’ombra delle Due Torri, era molto attivo uno dei centri più solidi dell’Internazionalismo anarchico in Italia, lo stesso Bakunin era stato presente nei giorni caldi del fallito moto del 1874 (descritto nel libro Il diavolo del Pontelungo di Riccardo Bacchelli)
Nel lavoro di segnalazione che veniva fatto sul giovane poeta, oltre alla descrizione delle normali abitudini, si scavava anche in profondità. Ecco cosa si legge in uno di quei rapporti: «Attraverso un sonetto gratulatorio indirizzato da Pascoli a un amico internazionalista, si instaura un preciso parallelismo tra la figura del Cristo e i nuovi redentori socialisti, condannati come malfattori e vagabondi». Infine, in un altro rapporto della questura di Bologna si rendicontava pure sulle «ripetute volte in cui si tennero segrete adunanze degli affiliati all’Internazionale in via dell’Orto Botanico e dove si proferirono discorsi eccitanti alla rivolta..»
Chissà se nel 2070 qualche ricercatore si imbatterà in una nota, risalente a poco meno di cent’anni prima e contenuta in un polveroso scatolone rinvenuto in un vecchio solaio abbandonato, in cui si legge: «Cospirare vuol dire respirare insieme…»
E la domanda che si faranno gli studiosi dell’epoca sarà: «E’ farina del sacco di un vecchio ministro degli interni, tal Francesco Kossiga… o è il verso che gli fecero quegli scanzonati zuzzurelloni degli indiani metropolitani?»
Gang
I Gang dei fratelli Marino e Sandro Severini sono la più famosa e duratura band di rock resistente del panorama musicale italiano. Da tempo hanno preso le distanze da mercati e case discografiche e producono in modo indipendente. Sono stati fra i gruppi che sono riusciti a catturare al meglio le atmosfere, i colori e i suoni delle lotte e della Resistenza e a coniugarli con sonorità rock. Il loro è un modo di fare musica arricchito da testi che fanno pensare in cui, come si diceva un tempo, il personale è politico e dunque imprescindibile dal sociale. Sono riusciti a fare tutto questo svuotando le loro canzoni da tutta la retorica che spesso si trova nelle narrazioni del passato. Non si fa nessuna forzatura nel dire che i Gang nelle loro composizioni hanno sbaragliato i luoghi comuni, l’indifferenza, i piagnistei che spesso accompagnano la musica indipendente italiana.
Ha detto Marino Serverini in un’intervista: «Mi dispiace per Giovanni Minoli e Francesco De Gregori ma io sono sempre più convinto che la Storia appartiene ai vincitori. Chi vince ha la storia e ne impone la propria versione con i mezzi che ha a disposizione, quelli del potere. Allora noi che abbiamo avuto nei secoli dei secoli? Noi abbiamo avuto anzi, noi siamo, le storie, al plurale. Come scrive Leslie Silko, scrittrice indiana d’America “Se hai le storie hai tutto, se non hai le storie non hai niente”. E queste storie nostre fanno una storia diversa da quella dei vincitori, fanno la storia nostra quella dei vinti. Tenerle vive, ricordare, anche cantando queste nostre storie significa che non abbiamo dimenticato il nostro cammino, le strade fatte che ci hanno portato fino a qui, significa quindi che non abbiamo dimenticato l’esclusione, l’emarginazione, lo sfruttamento, le violenze subite».