Per due mesi ce lo siamo sentiti ripetere in continuazione: restate a casa, non uscite. Ma c’è chi ha bisogno di una casa proprio per uscire: uscire dal carcere e sottrarsi alla situazione cronica di sovraffollamento che, in tempi di coronavirus, può facilmente trasformarsi in una vera e propria trappola. Proprio per questo si è aperta una possibilità, per quanto parziale, per consentire a una quota di detenute/i di lasciare il carcere e passare alla detenzione domiciliare: le maglie sono strette e i numeri ridotti, ma un’opportunità c’è. Eppure molte di queste persone, pur avendo gli altri requisiti, non possono uscire: solo perchè non dispongono di un domicilio adatto. Sappiamo che sono molti i casi di questo tipo anche alla Dozza di Bologna. Da tempo il tema è sul tavolo, ma le istituzioni non hanno prodotto nulla di concreto per affrontare questa situazione e compiere un atto di semplice civiltà. Da tempo abbiamo suggerito due immobili di proprietà pubblica, inutilizzati e in buone condizioni, che potrebbero accogliere decine di detenute/i: uno in via Casarini a Bologna, l’altro in via Tolara di sopra a Ozzano. Nulla si è mosso.
Allora abbiamo pensato di diffondere un po’ di fotografie perchè magari è utile vederli, questi edifici, per comprendere meglio quanto sia assurdo che se ne stiano lì, vuoti, mentre la Dozza scoppia e anche chi potrebbe uscire non può. Che gli amministratori di vario livello se le stampino in testa queste immagini, sperando che possa spingerli a darsi una mossa e lavorare, per una volta, a risposte concrete.
Chiediamo a tutte/i di condividere le foto e l’hashtag #unacasaperuscire, di far arrivare questo messaggio – via social, per email, nei vari modi possibili – a chi amministra questa città e questa regione, per sollecitare un provvedimento che non può attendere oltre.
Nel frattempo, non possiamo non notare che è veramente uno strano paese l’Italia, ci sono tanti paladini che si sciacquano la bocca un giorno sì e l’altro pure con la parola “legalità” e, quando viene applicata una norma che può produrre qualche diritto a delle persone “scomode”, si grida allo scandalo e all’osceno favoreggiamento della criminalità, invocando fermezza e rigore al suono delle manette, sempre bene in vista.
E tutti quelli che si stracciano le vesti a difesa della Costituzione, ma, se potessero, la prima cosa che farebbero sarebbe cancellare dalla “magna carta” l’articolo 27, quello che prevede che l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva, che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità (aprendo a percorsi di reinserimento dei detenuti) e che non è ammessa la pena di morte… Sono gli stessi che vedono la pena come una vendetta da parte dello Stato, che, nella maggior parte dei casi, chiuderebbero la cella e butterebbero via la chiave… Che il posto più sicuro per non venire infettati dal Covid-19 è una sezione di isolamento al 41 bis.
Poi ci sono i tanti “Travaglio-dipendenti” annidati in diversi giornali che in questi giorni hanno gridato allo scandalo per le scarcerazioni di alcuni detenuti condannati per reati legati alla criminalità organizzata, per il pericolo di un indulto camuffato o di un “tana libera tutti”. Non è stato dato un numero sui detenuti usciti agli arresti domiciliari per via del DPCM del governo sul Coronavirus, non è stato detto che, nel caso, i beneficiari del provvedimento dovevano avere un residuo di pena non superiore ai 18 mesi. Per quanto riguarda quelli messi in misura alternativa per gravi motivi di salute non è stata raccontata la vicenda in maniera corretta. Quasi nessuno ha riferito che il provvedimento preso dai magistrati di sorveglianza era una applicazione di leggi in vigore da tempo (come, per esempio, gli articoli 146 e 147 del Codice Penale), che prevedono la possibilità del rinvio della pena e dell’ammissione a misure restrittive diverse dalla detenzione in carcere , quando si verifichi un’incompatibilità della persona con lo stato di detenzione, in quanto la sua malattia o le sue patologie sono in una fase così grave da non rispondere più ai trattamenti terapeutici praticati in carcere.
Di tutto questo non si è letto nulla, mentre si è preferito dare fiato alle trombe di quel “populismo penale” che, sicuramente, non è materia esclusiva di Salvini, Meloni o Bonafede, ma trova tanti afficionados in tutti gli schieramenti politici e nella maggior parte degli organi di informazione.
Di quale sia la situazione nelle carceri italiane dopo le rivolte dell’8/9/10 marzo, non importa più niente a nessuno di costoro. L’avere uno straccio di informazione chiara sulle ragioni delle morti dei 14 detenuti nelle giornate delle protesta interessa ancora meno.
Quale sia lo stato della pandemia dentro gli istituti e il numero dei contagiati, quali provvedimenti sono stati adottati a livello sanitario, quali misure di “distanziamento precauzionale” sono state prese e quali e quanti dispositivi di protezione sono stati distribuiti; si tratta di ragguagli assolutamente necessari e doverosi che non possono stare a cuore solo ai familiari dei detenuti, alle associazioni di volontariato e alle realtà di movimento che vogliono tenere aperta la finestra sull’universo carcerario.
Sono in molti i segnali che dimostrano come l’adozione dei provvedimenti conseguenti agli articoli 123 e 124 del DPCM n. 18 continui a procedere in modo allentato e con numeri esigui.
Uno dei requisiti per accedere alla misura alternativa è l’indicazione di un domicilio, condizione di cui molti detenuti non dispongono, sia perché non hanno parenti in questo territorio, sia perché i requisiti per l’idoneità degli alloggi (il soggiorno deve essere di almeno 14 mq e nelle stanze da letto, in soggiorno e in cucina devono esserci finestre apribili. Se abitati da una persona sola, devono avere una superficie minima, comprensiva dei servizi, non inferiore a mq 28, se però le persone sono due si sale a 38 mq e così a crescere) non sono così semplici da avere.
Per tutte queste ragioni richiamiamo ancora una volta le Istituzioni centrali e locali (in primo luogo Regione Emilia-Romagna e Comune di Bologna) alle loro responsabilità.
Dopo un incontro tra l’assessorato alle politiche sociali della Regione Emilia-Romagna e i garanti regionale e comunali dei detenuti e altri soggetti istituzionali, l’assessorato si era impegnato a “individuare delle strutture dove accogliere, in alternativa al carcere, i detenuti privi di casa in possesso dei requisiti per accedere alle misure alternative al carcere”. Aveva dichiarato che erano disponibili per questo intervento 460 mila euro. Di tempo ne è passato in abbondanza, le strutture sono state individuate? E, se sì, come e da chi verranno gestite?
E sui posti da mettere a disposizione il ragionamento iniziato dal Comune di Bologna un mese fa in Commissione consiliare a che punto è? Qualcosa di concreto quando? L’assessore Zaccaria aveva ipotizzato di utilizzare i posti del Piano freddo, “che in estate non vengono utilizzati”. Però intanto il Piano freddo è stato prorogato, prima al 30 aprile e ora di nuovo fino al 31 maggio, alla luce delle misure per il contenimento del coronavirus. Questo è un bene, ovviamente, ma come volevasi dimostrare questi posti non possono essere utilizzati per le/i detenute/i: solita guerra fra poveri, solite dichiarazioni senza un seguito.
Ricordiamo agli amministratori pubblici del nostro territorio che l’affermazione da loro fatta di reperire strutture alloggiative in “tempi strettissimi”, che per una persona comune avrebbe dovuto significare “subito”, purtroppo ha imboccato la strada degli infiniti tempi “normali” della politica.
Pertanto come Vag61 ribadiamo per la terza volta la proposta fatta con altri comunicati.
Ci sono due strutture che si possono usare subito:
– L’ex ferrohotel, ex dormitorio della Polfer, di via Casarini a Bologna, di proprietà delle Ferrovie dello Stato.
– L’immobile di proprietà della Regione Emilia-Romagna, dove si tenevano i corsi di formazione professionale dell’ERSA (ex Ente Regionale per lo sviluppo agricolo). E’ nell’area della Città Metropolitana di Bologna, in via Tolara di sopra, in località Settefonti, nel territorio del Comune di Ozzano dell’Emilia, proprio di fianco a Villa Torre (il Centro Visita del Parco dei Gessi)
E’ venuto il tempo di mettere mano a soluzioni concrete e smettere di crogiolarsi nell’aria fritta.
Di pari passo, abbiamo deciso di dar vita insieme ad altre realtà collettive alla campagna per l’amnistia, per far crescere nella società un movimento d’opinione che contrasti quel clima di “panico morale” che è stato alla base delle logiche giustizialiste e manettare che tanti danni politici e sociali hanno prodotto in questi anni.
Vag61 – Spazio libero autogestito