#versoil25aprile/1: Negare ai fascisti l’uso delle piazze: una buona usanza che ci siamo tramandati [testo]

Nella cornice delle iniziative verso il ’25 aprile, sempre!’ pubblichiamo un contributo del Centro di Documentazione dei movimenti “F. Lorusso  – C. Giuliani”:

Una mattina di maggio del 1944, nei paesi dell’alta Toscana che avevano subito l’occupazione nazista venne affisso sui muri un manifesto: “Consegnatevi ai tedeschi o ai fascisti entro trenta giorni, oppure vi aspetta la fucilazione”. Si trattava dell’ultimatum che Benito Mussolini aveva rivolto ai militari “sbandati” dopo l´8 settembre 1943 e ai ribelli saliti in montagna. La minaccia di morte era allargata anche a chi avesse dato aiuto o riparo ai partigiani. A causa di questo decreto, voluto dal duce e da Rodolfo Graziani, si produssero feroci rastrellamenti e una caccia all’uomo indiscriminata. Tra il 13 e il 14 giugno, a Niccioleta, un paese della Maremma, furono ammazzati ottantatré minatori.

Quel manifesto era firmato da Giorgio Almirante, allora capo di gabinetto del ministro della Cultura Popolare Mezzasoma, che curava la Propaganda della Repubblica Sociale Italiana. E’ a partire da quella storia che Giorgio Almirante, segretario nazionale del Movimento Sociale Italiano, fu sempre bollato dagli antifascisti come “fucilatore di partigiani”.

Almirante, costituì il suo Msi come un soggetto politico fondato sull’utilizzo consapevole della nostalgia verso il fascismo. Agitando temi e slogan tipici di un fascismo antecedente la marcia su Roma, li utilizzò come strumenti aggreganti della propria organizzazione, facendo in modo che l’azione squadristica fosse parte centrale del suo agire politico.

Nei primi anni ’70, il “fucilatore di partigiani” arrivò a legittimare il colpo di stato dei colonnelli greci del 21 aprile 1967. Quel brutale regime fascista che durò per otto anni, fino al 1974, venne rivendicato come necessità per difendere la democrazia dal “pericolo comunista”. Altrettanto fece per il golpe in Cile che, l’11 settembre 1973, rovesciò il governo di Salvador Allende. Anche il quell’occasione Almirante sostenne che il regime militare di Pinochet era un argine contro il comunismo.

Fino a un po’ di anni fa, nei confronti di questo caporione fascista, avremmo al massimo tollerato l’intitolazione di uno scarico fognario o di una canaletta di scolo.

In tempi più recenti, invece, con questa balla della memoria condivisa, con la storia letta in chiave bypartisan, si è prodotto un tentativo di far passare normali cose che normali non sono, come la legittimazione del fascismo italiano. Attraverso la toponomastica, in diverse parti d’Italia, con l’intitolazione di piazze e strade a Giorgio Almirante, si è cercato di riaccreditare il fascismo nell’alveo delle culture politiche del nostro paese, smantellando il valore dell’antifascismo e quel che resta della cultura della Resistenza.

E’ per questo che, in occasione di questo 25 aprile, come Centro di documentazione dei movimenti “Francesco Lorusso – Carlo Giuliani”, abbiamo pensato che, oltre a ribadire il valore della lotta di liberazione antifascista, a ricordare il sacrificio di tanti ragazzi e tante ragazze che diedero la vita per la libertà, sia venuto il momento di cominciare a raccontare pure le diverse esperienze di antifascismo militante che per tutti gli anni ’70 tennero testa al riaffacciarsi dello squadrismo nero, contrastando e impedendo alle organizzazioni di estrema destra di riacquistare una legittimità politica che la storia gli aveva cancellato.

Alla fine degli anni Sessanta, il Movimento Sociale Italiano, insieme alle altre formazioni neofasciste più radicali, tentarono un’espansione numerica significativa. Questi gruppi si richiamavano alla cultura politica del primo fascismo squadristico e alle tendenze sociali della Repubblica di Salò. Numericamente modesti e socialmente circoscritti, i gruppi neofascisti mostrarono, però, particolare determinazione nelle azioni violente e di aggressione agli avversari politici. Tra il 1968 e il 1970 furono tanti gli episodi di squadrismo che coinvolsero queste organizzazioni, davanti alle scuole, alle università, o davanti alle fabbriche, a sostegno dei crumiri, nel tentativo di sfondare i picchetti operai.

Gli scontri tra i neofascisti e i militanti del movimento studentesco e della nuova sinistra erano all’ordine del giorno. Il Movimento Sociale Italiano venne identificato dalla contestazione giovanile e non solo come il diretto responsabile delle azioni squadristiche, ma pure come il maggior referente politico dei settori reazionari dello Stato.

I movimenti, con la loro pratica politica, rifiutarono una concezione che vedeva l’antifascismo soprattutto come una battaglia istituzionale chiusa all’interno delle regole parlamentari. Viceversa, esercitarono un antifascismo militante che, nello scontro diretto con i neofascisti, evidenziasse la lotta contro le regole capitalistiche.

Poi ci fu la strage di Piazza Fontana a Milano il 12 dicembre 1969 e si entrò uno dei periodi più oscuri e accidentati della storia della Repubblica. Le istanze che le lotte operaie e studentesche avevano fatto emergere con l’autunno caldo vennero contrastate dallo Stato attraverso lo stragismo e la “strategia della tensione”, con la manovalanza fascista sempre pronta a svolgere il suo sporco compito.

Negli anni Settanta la lotta politica sul terreno dell’antifascismo si spinse più avanti. Nella nostra regione la “ribellione” delle giovani generazioni in alcune occasioni fece breccia nella base del PCI, riuscendo a mobilitare migliaia di persone contro la violenza dei gruppi dell’estrema destra e contro la presenza di esponenti fascisti in piazza.

Una giornata storica fu quella del 17 maggio 1970. Prima a Parma, nel tardo pomeriggio, un comizio di Giorgio Almirante, in cui vennero usate parole contro la Resistenza e di esaltazione della Repubblica di Salò, venne duramente contestato da una folla composita di studenti, di “filocinesi”, di ex partigiani e di numerosi militanti delle cellule e delle organizzazioni di base del Pci. La protesta proseguì il giorno successivo con un assedio alla sede della federazione missina parmigiana.

La sera del 17 maggio a Bologna, all’annuncio di un comizio dell’ex fucilatore di partigiani in Piazza Maggiore, la piazza grande della città si riempì di migliaia di studenti, di operai e di ex partigiani. Gli antifascisti si spazientirono presto delle provocazioni del caporione missino. Dai gradini di San Petronio e dal Sacrario ai caduti della libertà di Piazza Nettuno ci fu un assalto di massa al palco fascista. L’ingiuria alla Resistenza venne impedita con una vera e propria battaglia campale che si allargò a tutte le strade del centro storico, dove, per ore, gli antifascisti resistettero alle cariche della Polizia. Il giorno successivo l’allora sindaco Guido Fanti convocò d’urgenza un consiglio comunale straordinario dove venne approvato un ordine del giorno che vietava l’utilizzo di Piazza Maggiore da parte del Msi e dei gruppi che si richiamavano al ventennio.

Scontri tra tra polizia e antifascisti si ripeterono il 25 maggio 1970, per via della contestazione che venne riservata al comizio di un altro dirigente missino, l’onorevole Servello.

Gli scontri con i neofascisti si intensificarono negli anni successivi, soprattutto nel 1971 e nel 1972.

L’azione più grave di marca fascista avvenne a Parma la sera del 25 agosto 1972, quando in viale Tanara, davanti al Cinema Roma, un gruppo di estrema destra accoltellò e uccise un militante di Lotta Continua, Mariano Lupo. L’assassinio del giovane operaio scosse profondamente l’animo antifascista della città. Le mobilitazioni che seguirono furono dure e di massa. Il 27 agosto venne organizzato un corteo da Lotta Continua, Potere Operaio e altri gruppi delle sinistra extraparlamentare, che vide la partecipazione di migliaia di compagni provenienti da tutta la regione. La manifestazione si concluse con l’incendio e la distruzione della sede del Msi. Il 28 agosto i funerali di Mariano Lupo si trasformarono in un altro enorme corteo di 30 mila persone.

Il 18 giugno del 1973, Giorgio Almirante fu costretto a fare i conti anche con una contestazione politico-culinaria. Nell’area di sosta del Cantagallo, sull’Autostrada del Sole Bologna-Firenze, nelle vicinanze di Casalecchio di Reno, un barista dell’autostazione vide il caporione missino con i suoi uomini avvicinarsi al banco dell’autogrill per mangiare. Dal salone del bar la voce arrivò a tutti gli lavoratori. Dai camerieri ai benzinai, tutti incrociarono le braccia e scesero in sciopero.

“Né un panino né una goccia di benzina al fucilatore di partigiani”, fu il passaparola che fece bloccare tutto.

Forse, Almirante e i suoi non avevano considerato che il Cantagallo distava pochi chilometri da Marzabotto, il paese martire per la strage nazista del 1944, o forse non pensavano che, pur se erano passati tanti anni da quel massacro di innocenti, l’orrore e il ricordo della complicità dei fascisti non si erano ancora cancellati.

I fascisti se ne dovettero andare senza nemmeno un panino e per il pieno di benzina dovettero rivolgersi a un’altra stazione di servizio.

Quella insolita forma di protesta sollevò grande scandalo e si impadronì delle prime pagine dei giornali per diversi giorni, ma anche i fascisti decisero di rispondere.

Della rappresaglia ne parlarono anche all’interno della cellula di Ordine Nuovo di Mestre che faceva capo a Delfo Zorzi, un ordinovista accusato per le stragi di Piazza Fontana a Milano e di Piazza della Loggia a Brescia che, dopo un tortuoso percorso giudiziario, è sempre riuscito a cavarsela. Zorzi, per rispondere all’affronto subito dal capo fascista, progettò la dislocazione di un ordigno esplosivo all’esterno dell’autogrill, collocandolo in particolare in prossimità di tubi o bombole di gas al fine di aumentare la potenza dell’esplosione. Il progetto si arrestò in quanto il Msi prese una propria autonoma iniziativa che si concretizzò, il 21 giugno 1973, in una spedizione punitiva all’autogrill capeggiata da Pietro Cerullo che, all’epoca, era uno dei responsabili giovanili del partito a livello nazionale. Anche in questo caso il gruppo di squadristi missini trovò una risposta adeguata. Per di più, alcuni fascisti messi in fuga furono lasciati a piedi anche dalla loro auto e vennero fermati dalla polizia in autostrada.

Tra le buone usanze che a Bologna e in Emilia-Romagna ci siamo tramandati nel corso degli anni, una delle migliori è quella di negare ai fascisti l’uso delle piazze, in primo luogo per ribadire che vanno tenuti fuori dai luoghi pubblici del vivere collettivo e che, politicamente, non devono conquistare neanche un centimetro.

Per tutti gli anni ’50 e ’60 erano gli operai che si facevano carico del problema. Se i fascisti chiedevano l’uso di una piazza, partiva il tam tam antifascista, nelle fabbriche si fermava il lavoro e, poche ore prima del comizio dei missini, la piazza era “presidiata” da folte delegazioni operaie.

Negli anni ’70 erano il movimento degli studenti e i gruppi della sinistra rivoluzionaria a chiamare alla mobilitazione e a contrapporsi, anche fisicamente, ai fasci.

Dal 13 maggio 2000 al 20 maggio 2019, ogni volta che Roberto Fiore e i fascisti di Forza Nuova hanno provato di mettere piede a Bologna migliaia di antifasciste e antifascisti, attivisti delle reti di movimento e dei centri sociali, sono scesi in piazza, non sottraendosi, quando è stato necessario, alla battaglia di strada. La stessa cosa è avvenuta le poche volte che, in città, Casa Pound ha cercato di mettere fuori la testa.

Poi ci sono state le grandi mobilitazioni contro i fascio-leghisti di Matteo Salvini. La prima l’8 novembre 2015, “Difendiamo Bologna dall’invasione leghista”, con la resistenza sul ponte di Stalingrado e con l’accerchiamento, da varie parti e con diverse modalità, di Piazza Maggiore dove si teneva il comizio e l’adunata legaiola. L’ultima il 14 novembre 2019, quando la polizia ha usato gli idranti per tenere a distanza migliaia di ragazze e ragazzi che stavano sfilando in corteo verso il palasport, dove si stava tenendo un meeting della Lega con Salvini, alla presenza di truppe cammellate fatte arrivare da tutte le regioni del Nord.

Il fascismo, sconfitto con la guerra di Liberazione, ritornò a farsi vivo, con le sue provocazioni, alla fine degli anni’60. Oggi si è ripresentato con altre forme, riuscendo a far presa, come già altre volte in passato, attraverso il suo stato emotivo ideale: la paura.

Se la grande maggioranza delle persone vive il mondo mediante la paura, se la propria coscienza diventa prigioniera del suo stesso credere, gli stati di panico per tutto ciò che ci circonda e che non sia connesso a noi stessi produrranno altre paure. La nostra miseria può essere intaccata dalla miseria di altri esseri umani, siano essi migranti, poveri e socialmente o sessualmente “diversi”.

Per questo dobbiamo continuare ad avere ben chiaro che se non si è attivamente e convintamente contro fascisti e nazisti, si è loro complici. Tacere di fronte alle violenze fasciste, minimizzarle o derubricarle a elementi di nostalgico folklore, significa esserne conniventi.

Essere antifascisti, ieri come oggi, vuol dire praticare la (più che legittima) difesa contro chi professa un nuovo totalitarismo attraverso l’intolleranza e la discriminazione dei diversi e dei più deboli.

Molte delle strade di Bologna sono dedicate ai caduti della Resistenza, più di duemila sono le formelle raccolte al Sacrario di Piazza Nettuno con i ritratti e i nomi dei caduti partigiani. Quei ragazzi e quelle ragazze che diedero la vita per liberare il nostro paese dalla dittatura mussoliniana non lo fecero per permettere oggi alle carogne fasciste di uscire dalle fogne.

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