Pubblichiamo un contributo ricevuto dallo scrittore Valerio Evangelisti che tocca il tema dell’emergenza coronavirus a partire dalla febbre suina che terrorizzò il Messico nel 2009. La multinazionale Roche si arricchì commercializzando un antivirale che sembrava l’unico che potesse contrastare l’epidemia, ma che in seguito si rivelò inefficace.
Quello del Covid-19 “è un caso molto diverso, ma dove in medicina prevale l’interesse privato si può far denaro anche con i cadaveri”, avverte Evangelisti.
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Tamiflu
di Valerio Evangelisti
Nel 2009 mi trovai nel mezzo di una pandemia. Ero in Messico, sulla costa del Pacifico, e si diffuse la variante del virus H1N1 denominata la “febbre suina”. Attaccava la zona polmonare, e provocò un buon numero di morti, tra la gente più debole (in Messico sono in tanti). L’allarme scattò quasi da un momento all’altro. Nella capitale, la città più colpita, fu proclamato lo stato d’emergenza. Fu una corsa alle mascherine protettive, che crebbero immediatamente di prezzo e divennero introvabili. Nel centro del paese fu ordinata la chiusura di tutti i bar, i ristoranti e i centri d’aggregazione. Cosa non facile, visto che Città del Messico è una metropoli dalle dimensioni sterminate.
Anche dove mi trovavo, Puerto Escondido, fu il terrore, a dispetto dell’assenza di contagiati. Le poche mascherine in vendita andarono esaurite nel giro di poche ore. Va tenuto presente che il sistema sanitario messicano è imitato da quello statunitense (l’attuale presidente López Obrador ha promesso di cambiarlo, incontrando resistenze fortissime). La sanità è interamente privatizzata, le cure gratuite sono riservate a chi abbia un’assicurazione. Meno di un terzo degli abitanti, volendo esagerare.
Cominciò quindi una corsa al rincaro dei medicinali, sebbene la “pandemia”, dichiarata dalla OMS, colpisse solo alcune zone, e stentasse a uscire dal Paese. Il maggiore sostenitore della ipotesi pandemica, accolta dalla OMS, era un noto medico, popolare nelle cerchie privilegiate. Chi temeva la malattia si gettò su un farmaco antinfluenzale destinato alla celebrità, il Tamiflu. Pareva l’unico in grado di fermare il virus. I Paesi timorosi del morbo ne acquistarono quantità spaventose, senza badare all’elenco lunghissimo di controindicazioni. La società produttrice, la Roche, stentava a soddisfare la domanda.
Intanto ogni Stato, tra quelli che compongono il Messico, reagiva a suo modo. Chi imponeva una misura restrittiva, chi un’altra. E c’erano governatori che non imponevano proprio nulla, come quello (di Oaxaca) in cui mi trovavo io. Al momento di ripartire, si limitarono a controllare che non avessi la gola arrossata, e nell’aeroporto della capitale a misurarmi la febbre. Pannelli della Roche pubblicizzavano anche lì il Tamiflu.
Finì che il virus si estinse da solo circa un mese dopo, senza vaccini o medicamenti particolari. Terminò il suo ciclo di vita e morì di morte naturale. Il Tamiflu gli sopravvisse per poco. Qualche anno dopo l’OMS, che se ne era fatta banditrice, lo declassò e rimise in riga, catalogandolo come semi-inefficace. Si scoprì che il medico messicano che più aveva premuto per la dichiarazione di pandemia era un collaboratore della Roche.
Il coronavirus attuale è un caso molto diverso. Colpisce effettivamente, e bastano le statistiche dei seppellimenti di defunti per dimostrarlo. Ha scala davvero mondiale, tanto che la conta finale dei morti sarà terrificante. Se ho parlato del Tamiflu è solo per dire che non bisogna avere cieca fiducia nell’OMS e in certi scienziati più o meno illustri.
Talora è esile il diaframma che separa la tragedia vera dalla farsa messicana. Dove prevale l’interesse privato in medicina, si può fare denaro anche con i cadaveri, il terrore e i medicamenti fasulli.