Perché partecipiamo al festival “Porte aperte”
Sono alcuni decenni che il grado di civiltà di un territorio non si misura più con la sua capacità di accogliere e aiutare i membri della propria comunità più deboli e più in difficoltà. Questo è successo anche in una città come Bologna, un tempo conosciuta per il livello avanzato dei suoi servizi di protezione sociale. Negli anni passati la figura dell’operatore sociale era molto valorizzata e presa in considerazione per quanto riguardava la progettazione del settore.
Questo perché le operatrici e gli operatori, con il loro lavoro di prossimità, erano la cartina di tornasole dei problemi delle fasce più disagiate della popolazione. I “lavoratori del sociale”, con la concretezza del loro operare, erano la dimostrazione che, contro il disagio, si potevano mettere in campo percorsi di equità e di solidarietà.
Poi è arrivato il tempo dei tagli al welfare. Il paradosso è che questa scelta, dettata dalle politiche di austerity volute dalla BCE e dal Fondo Monetario Internazionale, ha preso piede nel periodo di maggiore proliferazione di una crisi economica che sta producendo effetti devastanti nel tessuto sociale. Con i tagli al welfare, chi tiene le briglie del potere intende far pagare i costi della crisi ai soggetti più deboli: in primo luogo, ai cosiddetti “utenti del sociale” (senza lavoro e senza casa, utenti dei servizi per le tossicodipendenze, ex reclusi delle istituzioni totali, migranti), ma, subito dopo, a chi fa lavori di “front office sociale” e di accoglienza. Effetto concreto di tutto ciò: chiusura di strutture di accoglienza, taglio dei posti letto e di servizi di assistenza, riduzione dei posti di lavoro per figure professionali che non costruiscono armi, che non speculano in borsa, che non lucrano sulle disgrazie degli altri. A chi rimane viene chiesto di fare il “badante” o la “guardia”, di limitarsi a “custodire” le persone in difficoltà, di accantonare le attività di aiuto e di cura e i percorsi di risocializzazione. Con le logiche del “massimo ribasso” che pervadono le gare d’appalto, sia nelle Cooperative che negli Enti pubblici, i diritti dei “cittadini lavoratori” e dei “cittadini utenti” vengono sempre più calpestati.
Con la crisi, a Bologna, i “nuovi poveri” che si rivolgono ai servizi sociali sono aumentati del 30%. Alle povertà “tradizionali” dei senza fissa dimora, degli immigranti senza permesso, dei carcerati ed ex carcerati, dei tossicodipendenti, delle donne sole con figli e vittime della tratta, si aggiungono nuove forme di impoverimento: sono quelle derivate dagli operatori sociali precari, dalle differenze di genere, dagli over 50 che hanno perso il lavoro, dai giovani in cerca di nuova occupazione, dai migranti e dalla dispersione scolastica. Basta vedere i centri d’ascolto, le mense sociali, i dormitori, i centri per l’impiego, il banco dei pegni, la sezione del Tribunale che si occupa di sfratti. Davanti a questi luoghi le “file della disperazione” si allungano sempre di più. Nei dormitori ci sono sempre più persone di età compresa tra i 50 e i 60 anni che perdono il posto di lavoro, che vivono la rottura dei vincoli familiari, ed hanno maggiori difficoltà rispetto ai giovani di giocarsi delle possibilità di reinserimento, perché il mercato del lavoro risulta chiuso a persone di quella fascia d’età, quindi finiscono per restare nelle strutture con la prospettiva di viverci, sempre più spesso, fino alla fine dei loro giorni. Sono sempre di più le “parabole discendenti” che coinvolgono tanti uomini e donne, fino a poco tempo fa, considerati “normali”.
Le parole di rassicurazione che vengono dal Comune sono ridicole: “Il bilancio mette in sicurezza i servizi sociali, ma l’assistenza non passa più solo per la strada dell’intervento pubblico, ma viene dettata dal 4° comma dell’articolo 118 della Costituzione che riafferma come le istituzioni favoriscono l’iniziativa dei cittadini per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Parole vuote che fanno finta di non vedere il disagio che si vive in questa città, come in tante altre. Il “no future” e il “no hope” non sono più gli slogan del movimento punk, ma una condizione di vita di un universo sociale sempre più vasto.
E’ con questo “approccio critico” che, anche quest’anno, abbiamo deciso di partecipare alle iniziative di “Porte Aperte” collaborando con gli operatori del centro di accoglienza Beltrame. Perché non ci vogliamo voltare dall’altra parte, come abbiamo chiesto di fare a chi amministra la città dopo il recente suicidio che si è verificato proprio al Beltrame. Perché vogliamo continuare a dare il nostro contributo a ricostruire il tessuto di solidarietà sociale che stanno distruggendo. Perché riteniamo importante che tutti abbiano un posto dove dormire e dove mangiare, ma abbiamo chiaro che l’assistenza non basta, che alle politiche d’esclusione che oggi vanno per la maggiore, bisogna contrappore percorsi di lotta, di inclusione, di mutuo soccorso e di aiuto reciproco.
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