Il welfare sotto attacco

In occasione dell’inziativa “Bologna al bivio: che fine ha fatto il welfare municipale?”,  Vag61 propone un contributo al dibattito ragionando anche del processo europeo che ha “ridefinito il nocciolo del rapporto tra lavoro, welfare e cittadinanza”.

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IL WELFARE SOTTO ATTACCO

La “crisi” di questi anni è stata anche crisi del welfare. C’è stata una tendenza abbastanza spinta verso lo stato sociale minimo, nel quale il salario indiretto dei precari e dei lavoratori, sotto forma di diritti esigibili, è stato in più punti tagliato. Oggi, poi, vediamo che i perni dello stato sociale (scuola, edilizia pubblica, assistenza, sanità e previdenza), vengono demoliti a colpi di piccone.

Tra le cause ci sono le politiche monetariste dei governi centrali che, accettando i “patti di stabilità”, imposti a livello europeo sul debito pubblico, sfornano a man bassa provvedimenti di austerità che affamano (è proprio il caso di dirlo) i settori più deboli della popolazione.

Ma di colpe ne hanno pure i politici locali che hanno cancellato nei territori anche i più timidi segnali di politiche sociali. C’è stato un progressivo smantellamento del sistema pubblico di garanzie e di protezioni sociali, che è stato accompagnato da un micidiale fritto misto, fatto di un degradato parapubblico (come le cosidette ASP, le aziende di servizi alle persone che hanno preso il posto delle ex Opere Pie) e di cattiva imprenditorialità (cooperative e imprese sociali), a cui è stata affidata l’esternalizzazione dei servizi sociali.

Prima di entrare nel merito dello “stato dell’arte” ci sembra opportuno provare a portare all’attenzione alcune tendenze più generali che sottotraccia lavorano verso una vera e propria ridefinizione del ruolo e degli obbiettivi del welfare. Pur all’interno di un quadro complesso ed eterogeneo, sia sul piano locale che su quello nazionale, ci sembra sia possibile individuare alcune linee di fondo che si sono consolidate a livello europeo a partire dal Processo di Lussemburgo del ‘98 e che a cascata hanno innervato gli indirizzi di politica sociale e del lavoro dei vari paesi membri. Un processo che sembra ridefinire il nocciolo del rapporto tra lavoro, welfare e cittadinanza, e di conseguenza incidere sulle modalità di accesso alla proprietà sociale. Il welfare storico si articolava sulla base della definizione e distinzione di alcuni beni comuni, l’accesso ai quali era da considerarsi come patrimonio di base della cittadinanza (salute, istruzione, garanzie dai rischi sociali etc etc). L’accesso ai servizi pubblici deputati a produrre questi beni comuni non registrava le caratteristiche della popolazione, ma caratteristiche dei beni in questione: era la loro natura di beni comuni e non la posizione dei destinatari  che ne giustificava l’erogazione. Ora questa logica sembra sempre  più venir meno.

L’Unione europea, oltre ad aver agito sul piano del controllo dei conti pubblici dei singoli stati membri ha contemporaneamente dispiegato  una retorica sul welfare che reintroduce la responsabilità individuale rispetto alla propria condizione di bisogno, producendo così una moralizzazione del discorso  che soggettivizza le problematiche e depoliticizza la questione della povertà così come quella del lavoro. Sono i soggetti che devono dimostrasi “degni”, dopo aver affrontato un percorso, spesso deciso in modo unilaterale, di veder riconosciuti i propri bisogni , che non a caso vengono ridefiniti come “bisogni” (la cui definizione non si sa bene a chi spetti ) e non come diritti da esigere. L’attenzione è posta direttamente sui destinatari, di cui si dovrà misurare la volontà di uscire dalla situazione di disagio, invece che sulle condizioni sociali e i contesti di vita in cui sono immersi. I dispositivi di workfare e le politiche attive ci parlano proprio di questo.

Un esempio concreto e drammatico di questo cambio di prospettiva  sta in alcune dichiarazioni in merito alla morte di David, dove è stato evidente il tentativo di addossare la colpa ai genitori, ed in particolare alla madre, in quanto, da una parte  povera e quindi degenera, e dall’altra responsabile della morte perchè ha in passato rifiutato l’aiuto dei servizi. Qui emerge l’altro problema, cioè che tipo di bisogni vengono riconosciuti ai soggetti destinatari dei servizi? In questo caso la possibilità di trovare risposta a quei bisogni passava esclusivamente dall’accettazione di uno smembramento del nucleo famigliare quando non addirittura dalla sottrazione dei figli attraverso misure giudiziarie, in sostanza da una punizione.

Questi processi però non riguardano soltanto le politiche sociali ma anche le politiche occupazionali e del lavoro, anche qui sempre più è il singolo disoccupato che è responsabile della situazione di disoccupazione, è la sua inadeguatezza alle richieste del mercato a renderlo inoccupabile. Si enfatizza la responsabilità individuale rispetto alla posizione personale occupata nel mercato del lavoro e, in questo modo, si produce uno scivolamento verso una gestione microeconomica dell’offerta di lavoro. La disoccupazione passa dell’essere un problema macroeconomico per assumere i contorni di una lacuna personale, da affrontare mobilitando e aggiornando il proprio “capitale umano”, attraverso corsi di formazione  e l’accettazione di qualsiasi lavoro come contropartita per l’erogazione dei sussidi.

Infine un’ultima questione riguardo al processo di trasformazione delle Asp e di privatizzazione dei servizi. L’aziendalizzazione e più in generale i dispositivi di governace producono una riduzione della visibilità pubblica riguardo le scelte che vengono fatte, gli indirizzi e gli strumenti delle politiche. Questi processi decisionali sono sempre più opachi, sottratti allo spazio pubblico, all’arena politica, e quindi al conflitto. Quello che va rivendicato è anche, banalmente, il diritto di voice.

In questo momento è necessario capire a fondo anche questo tipo di dinamiche e di retoriche  per provare a contrastarle attraverso un discorso che rimetta al centro la questione della giustizia sociale come distribuzione di potere e non solo di beni e che eviti da una parte la moralizzazione del cittadino e  dall’altra il trattarlo esclusivamente come vittima bisognosa.

Alcuni dati sullo stato dell’arte

LE ASP

Le Aziende Servizi Pubblici alle Persone (ASP) sono state istituite in Emilia Romagna dalla Legge Regionale n.2 del 12 marzo 2003 (Norme per la promozione della cittadinanza sociale e per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali), che ha trasformato le IPAB (ex Opere Pie) in ASP, determinando l’avvio di un processo di riforma, in senso aziendale, del sistema degli interventi sociali.

Le ASP, attuando un processo di aziendalizzazione, hanno il compito di gestire i servizi che prima erano garantiti dale IPAB (soprattutto residenze protette per anziani) ed assumere il ruolo di produzione ed erogazione di eventuali ulteriori servizi socio-assistenziali e socio-sanitari, nell’ambito e secondo le esigenze della pianificazione locale, cosi come è definita dai Piani di zona (il cui ambito territoriale coincide con quello del Distretto sanitario).

Le ASP possono caratterizzarsi anche come Azienda multiservizi nell’ambito dello stesso settore di assistenza. Per la città di Bologna, tutte le IPAB sono state accorpate in tre ASP: la Giovanni XXIII che si occupa di anziani, la Irides che si occupa di adolescenti ed handicap, la Poveri Vergognesi che, oltre agli anziani (che gestiva in precedenza) si occupa di servizi per l’immigrazione, disagio adulti, tossicodipendenze, gestione residenze collettive (asili notturni, dormitori pubblici, centri di accoglienza).

A ben vedere, servizi che prima erano in capo all’Assessorato alle Politiche Sociali del Comune, che sono stati “appaltati” alle ASP (attraverso contratti di servizio) che, a loro volta, in massima parte. li subbappaltano alle coop sociali. La presidenza e i consigli di amministrazione delle ASP avvengono per nomina politica e, molto spesso, questi ruoli vengono coperti con trombati ed “amici&compagni” da sistemare che non brillano certo per capacità di gestione e di impresa.

Che le cause del disatro che si è prodotto nel welfare bolognese siano derivanti in parte dai tagli governativi nazionali (e, a cascata, da quelli locali) è acclarato, ma una buona parte delle ragioni sta anche nella deleteria “riforma”  del trasferimento delle deleghe sociali ai quartieri, voluta dalla Giunta Cofferati, e dalla gestione delle ASP.

IL “PRIVATO SOCIALE”

La monetarizzazione e la privatizzazione dei servizi sono andate avanti in una logica mercatista. Attorno al tanto decantato principio di sussidiarietà ha preso corpo la “svolta della grande alleanza”. Una svolta basata sul dio mercato e sugli interessi economici, in cui le Centrali Cooperative sono oramai indistinguibili dalla Compagnia delle Opere.

Il rapporto tra enti pubblici e cooperative o aziende del cosiddetto privato sociale, è ormai drogato dalle gare al massimo ribasso e dai tempi lunghissimi dei pagamenti dei servizi già erogati. A pagarne le conseguenze sono  soprattutto gli operatori e le operatrici sociali, persone che svolgono un ruolo fondamentale nell’assistenza alle fasce più disagiate della popolazione: anziani, disabili, disagiati psichici, tossicodipendenti, donne vittime di violenza, ragazzi “difficili”, persone che abitano nelle strutture di accoglienza o nei dormitori pubblici. Al tempo stesso, i tagli al welfare vanno a colpire soprattutto quei progetti rivolti al disagio sociale.

LE FONDAZIONI BANCARIE

Un altro aspetto che va assolutamente analizzato è il ruolo che svolgono oggi le Fondazioni Bancarie, diventate veri e propri moderni forzieri che condizionano le scelte dei governi dei territori. Le fondazioni bancarie sono nate 20 anni fa come espediente tecnico per privatizzare le banche pubbliche e le Casse di Risparmio e devono, per legge, destinare le loro cospicue risorse e gli utili derivanti dalla gestione del proprio patrimonio a iniziative culturali e ad attività sociali del territorio. Si tratta di risorse che sono al di fuori dei bilanci degli enti locali, ma che, rispetto ai tagli degli ultimi anni, li condizionano fortemente.

Gli scopi istituzionali delle fondazioni sono: il perseguimento di fini di utilità sociale (nei settori della ricerca scientifica, dell’istruzione, dell’arte, della sanità, della conservazione e valorizzazione dei beni culturali e ambientali, dell’assistenza alle categorie sociali più deboli) e di promozione dello sviluppo economico.

Oggi, le Fondazioni bancarie stanno giocando un ruolo sempre più significativo nella nuova configurazione dello stato sociale, contraddistinto dai mutati rapporti centro-periferia e pubbico-privato, svolgendo funzioni che un tempo erano assegnate a soggetti pubblici. Sono diventate, quindi, dei centri rilevanti di potere e i partiti sono in prima linea nelle nomine dei loro emissari nei consigli di amministrazione, che si mischiano ai portavoce degli industriali e delle grandi corporazioni commeciali.

I FONDI EUROPEI

Negli ultimi anni, oltre che nel settore della formazione, i fondi europei hanno svolto un ruolo fondamentale per finanziare progetti a indirizzo sociale. Se si va a leggere un bilancio di un Comune di dimensioni medio-grandi si comprende quale sia la portata di questi finanziamenti. Nessuno disconosce l’importanza di questa che, gestita bene, sarebbe un’opportunità, il fatto è che, concretamente, a prescindere dagli intenti, ai soggetti che dovrebbero essere destinatari dei progetti, molto spesso, non arrivano i benefici, perché tutto si ferma a uno stadio precedente.

Nella realtà, i finanziamenti europei vengono utilizzati soprattutto per foraggiare una pletora di personaggi che si aggirano attorno alle stanze del potere politico. La captazione di queste somme di denaro pubblico avviene attraverso la costituzione di un reticolo di società organizzate secondo vere e proprie scatole cinesi, il più delle volte miste pubblico-privato. Chi lavora all’interno delle società che si aggiudicano i progetti finanziati sono molto spesso persone indicate da coloro che, a monte, governano e stabiliscono le condizioni per ottenere il finanziamento.

In diversi casi, si è scoperto che personaggi che, svolgendo ruoli importanti nelle Regioni o in altre Istituzioni, avrebbero dovuto avere il compito di controllare la realizzazione dei progetti, partecipavano direttamente o indirettamente nelle società che dovevano essere controllate. Nelle società miste pubblico-privato, sono poi sempre più frequenti i casi in cui, nella parte pubblica, si verifica una vera e propria lottizzazione politica degli incarichi. Questa modalità di gestione dei finanziamenti europei è ormai
sistemica, la casualità (ormai sempre più frequente) riguarda delle vere e proprie truffe che vengono prepetrate ai danni dell’Unione Europea, che si aggiungono a episodi di corruzione che sono ormai un fenomeno congenito.

IL VOLONTARIATO COME TAPPABUCHI

Il cosiddetto terzo settore non ha più niente a che fare con il volontariato e con la cittadinanza attiva. L’attuale “Forum del terzo settore” rappresenta la congiunzione traversale tra la Compagnia delle Opere, la Lega delle Cooperative e le Fondazioni bancarie. Infine, c’è il ruolo marginale a cui è stato relegato il volontariato (quello vero).

Le iniziative caritatevoli e filantropiche o di aiuto solidale sono diventate sempre più fragili. Sempre più spesso sono relegate alla funzione di tappare le falle di un sistema che fa acqua da tutte le parti. Per le persone (i tanto decantati utenti), tutto questo ha voluto dire un decadimento della qualità dei servizi, che è andato avanti di pari passo con l’aggravarsi delle condizioni lavorative e salariali dei lavoratori del sociale.

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