MERCOLEDI’ 6 DICEMBRE’023 alle 20,30
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Presentazione del libro “L’odio dei poveri” di Roberto Ciccarelli (Ponte alle Grazie, 2023). Sarà presente l’autore.
Una rigorosa inchiesta politico-filosofica sul welfare
Che cos’è l’«odio dei poveri» che dà il titolo a questo libro? È l’odio verso i poveri o il loro odio verso chi li definisce tali, confermandone e approfondendone la subalternità?
A partire da questa doppia definizione, L’odio dei poveri si rivela non un semplice saggio su quello che un tempo si sarebbe chiamato «odio di classe», ma una disamina acuta e originale dei conflitti sociali e di potere che indirizzano il nostro linguaggio: termini taglienti e spesso di difficile comprensione come «occupabili», «inclusione attiva», «reddito di cittadinanza», «povertà assoluta» e «relativa» e soprattutto il bicefalo «workfare» – la versione impoverita del welfare – rappresentano in Occidente l’arma più astuta usata dal sistema per governare la precarietà delle vite.
Il libro decostruisce un importante pezzo di storia e di microfisica del potere e fornisce nuovi strumenti per le politiche della liberazione combinando il reddito di base incondizionato con una riforma universale dello stato sociale, finanziata dalla tassazione dei patrimoni e delle eredità, dei profitti realizzati dalle industrie inquinanti e dalle multinazionali tecnologiche. Il diritto di esistenza non può prescindere da una drastica riduzione e redistribuzione del lavoro necessario e del suo orario; da un ripensamento radicale dell’istruzione, della formazione e della ricerca unendo lo sviluppo delle capacità manuali e intellettuali alla creazione dell’autonomia delle facoltà individuali e collettive.
L’odio dei poveri e la sfida del reddito
Nell’ordine sociale la possibilità di riconoscere alla forza lavoro un reddito sganciato dalla produzione del lavoro-merce, e connesso alla potenza di creare tutti i valori del mondo, è lʼequivalente al diritto allʼinsurrezione nell’ordine politico. Nel XIX secolo tale diritto è stato esercitato da chi ha rivendicato il “diritto al lavoro”. Nel XX secolo si è manifestato nella richiesta del salario come variabile indipendente dalla produzione. Nel XXI secolo lʼidea dellʼinsurrezione potrebbe essere esercitata attraverso un diritto al reddito di base incondizionato perché ciascuno ha il diritto ad esistere e la sua forza lavoro è produttiva in ogni dimensione della vita al di là dei rapporti di lavoro in cui è inserita.
Queste rivendicazioni non si escludono. Anzi, possono essere declinate in una politica. Averle separate, e continuare a pensare la società secondo la divisione sociale del lavoro, porta a contrapporre poveri e lavoratori, meritevoli e immeritevoli, produttivi e improduttivi. Questo, in fondo, è stato l’esito di quella politica attiva del lavoro chiamata impropriamente “reddito di cittadinanza”. E così continuerà ad essere, a meno che non ci sia un rovesciamento delle prospettive, e una loro riunificazione su un piano diverso dal Workfare, il gemello mostruoso del welfare, che da destra a sinistra si vuole continuare a consolidare.
Salario, contrattazione, riduzione del lavoro a parità di salario, reddito di base. Riunificarli in una politica, non separarli. Come accadeva prima con il “reddito di cittadinanza”. E accade oggi con il “salario minimo”.
Il reddito sganciato dagli attuali vincoli (peggiorati dal governo Meloni) è legato alla possibilità di scegliere e dunque di stimolare la qualità del lavoro. Sottrae ai ricatti e stimola a fare offerte decorose, a rispettare il diritto al riposo, a riconoscere la ricerca di una vita liberata.
Il “sociale” è diviso dal “soggettivo”, dalla storia, confinato al tecnicismo senza politica, allo stigma, al va tutto bene fino a quando tocca a me.