Che la cultura giustizialista e manettara avesse fatto breccia nella società ce ne eravamo accorti da tempo e ne avevamo denunciato i pericoli.
Certo, c’è di che preoccuparsi se personaggi come Marco Travaglio e Piercamillo Davigo (quelli che affermano: “il sovraffollamento nelle carceri non esiste”, “non c’è luogo più sicuro dal contagio delle prigioni”, “non c’è nulla di scandaloso se un presunto innocente è in carcere”, “non ci sono innocenti, ci sono solo colpevoli non ancora scoperti”) sono diventati delle specie di padreterni per buona parte dell’opinione pubblica.
C’è da leccarsi le ferite se macchiette sgradevoli come Salvini e Bonafede sono diventate celebrati protagonisti del panorama politico italiano.
Ma c’è pure da “fasciarsi la testa” (dato che sicuramente si romperà) di fronte all’ordine del giorno votato pochi giorni fa dal consiglio comunale di Bologna (a larghissima e trasversale maggioranza) che, a quasi un mese dalla drammatica protesta del 9 marzo scorso, esprime “ferma condanna agli episodi di violenza e devastazione che si sono verificati all’interno della Casa Circondariale, vicinanza e apprezzamento ai detenuti che non hanno partecipato alle rivolte, biasimo per quanti all’esterno delle carceri hanno incitato alla rivolta e solidarizzato con le violenze, aggiungendo tensione agli uomini dello Stato che dovevano gestire l’emergenza”, auspicando “una soluzione strutturale dei problemi che gravano sul sistema carcerario da molto tempo”.
Ci hanno messo più di 25 giorni per fare uscire questo testo, emendandolo per ben tre volte, e si si sono (guarda un po’) scordati della situazione di pericolo oggettivo per il propagarsi dell’epidemia da Coronavirus che si vive in una struttura in perenne sovraffollamento, non in grado di garantire le distanze di sicurezza per detenuti e personale, né tento meno il diritto alla loro salute.
In queste settimane ci sono state prese di posizione e appelli provenienti da tante parti della società civile, ci sono state perfino raccomandazioni arrivate dall’Onu e dal Consiglio d’Europa, ma a Palazzo d’Accursio non si sono accorti di nulla.
Certo, queste donne e uomini, alteri e superbi rappresentanti della nostra assemblea elettiva comunale, hanno riaffermato politicamente, nella lunga discussione che ha portato all’OdG, che “lo Stato non deve indietreggiare neppure di un centimetro di fronte all’illegalità”.
Peccato che questi paladini della legalità conoscano abbastanza sommariamente quello che il “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali” prevede e cioè che il sindaco è il responsabile per la salute della popolazione del suo territorio e il consiglio comunale condivide politicamente questa responsabilità.
Peccato che questi fini amministratori locali si siano dimenticati in fretta (o non abbiano mai appreso) che il DLg 299/1999 (conosciuto come decreto Bindi), che ha introdotto una modifica alla Legge 23 dicembre 1978, n. 833 sulla “Istituzione del servizio sanitario nazionale”, attribuisce al sindaco il compito di conoscere lo stato di salute della popolazione, di prendere provvedimenti se le condizioni ambientali sono invivibili e se esistono pericoli incombenti, con il dovere di informare la popolazione dei rischi rilevanti cui è sottoposta.
Allora, la Casa circondariale “Rocco D’Amato”, situata in via del Gomito 2, non si trova forse nel territorio del Comune di Bologna?
La salute delle persone che sono recluse o che vi lavorano non deve destare almeno la preoccupazione del sindaco, della giunta e del consiglio comunale?
Perché se non è così, allora hanno ragione tutti quelli che solidarizzano con le istanze dei detenuti quando sostengono che il carcere è un’istituzione totale, un mondo a parte che non lascia trasparire nulla di quello che capita al suo interno.
Mentre nei palazzi comunali, si perde tempo ad “andar per rane”, nella realtà si susseguono le notizie di nuovi contagi tra la popolazione penitenziaria, sia a Bologna che nelle altre carceri italiane. In alcuni penitenziari sono ripartite le proteste con battiture, rientri in ritardo dall’aria e scioperi della fame. Molti parenti e familiari si rivolgono alle associazioni o agli avvocati per chiedere angosciosamente ragguagli sulla situazione dei loro congiunti e continua a circolare la notizia che, “per ragioni di sicurezza”, alla Dozza, i detenuti di alcune sezioni del giudiziario sono chiusi in cella 24 ore su 24.
In questi giorni c’è stata la discussione in Senato sul decreto del governo, con gli annunciati attacchi della Lega sui provvedimenti riguardanti i detenuti: “Guai agli indulti mascherati”.
In realtà le misure del governo non solo non si avvicinano nemmeno lontanamente all’indulto (non c’è nessuna rimessa in libertà, si tratta di misure alternative), ma sono assolutamente inefficaci pure nell’intento di ridurre la popolazione carceraria come era stato pronosticato.
Sfortunatamente gli esiti del decreto sono agli occhi di tutti. Dei 4.000 detenuti in meno rispetto al momento dell’uscita del provvedimento, solo 1.361 hanno usufruito delle detenzioni domiciliari utilizzando sia quanto previsto dall’articolo 123 del decreto – legge 18/ 2020 sia dalla normativa antecedente (Legge 199/ 2010). Sono state date 405 licenze a persone già in semilibertà (sono 18 i semiliberi che, a Bologna, hanno ottenuto una licenza fino al 30 giugno).
Il resto della diminuzione è dovuto al calo degli arresti in flagranza di reato e all’applicazione di misure alternative già previste dall’ordinamento penitenziario.
Sono in molti gli addetti ai lavori che sostengono come l’adozione dei provvedimenti conseguenti agli articoli 123 e 124 del recente decreto n. 18 proceda a ritmi lentissimi e con numeri molto bassi.
In Emilia-Romagna su circa 1.100 persone che potrebbero chiedere di accedere a misure alternative hanno fatto finora domanda in 340. E’ iniziata l’istruttoria per 240 casi, ma solo su 25 è stata presa una decisione (9 domande rigettate e 16 accolte).
Uno dei requisiti per accedere alla misura alternativa è l’indicazione di un domicilio, condizione di cui molti detenuti non dispongono.
Su questo fronte, si è verificata una novità positiva qualche giorno fa. Dopo un incontro tra l’assessorato alle politiche sociali della Regione Emilia-Romagna e i garanti regionale e comunali dei detenuti e altri soggetti istituzionali, è uscita la volontà di “individuare delle strutture dove accogliere, in alternativa al carcere, i detenuti privi di casa in possesso dei requisiti per accedere alle misure alternative al carcere. Per questo intervento sono a disposizione 460 mila euro”.
Se, però, questo provvedimento viene interpretato come ha fatto l’assessore con delega al “Patto per la giustizia” del Comune di Bologna proprio non ci siamo. Questo è quello che ha detto in Commissione consiliare: “Stiamo ragionando sulla possibilità di mettere a disposizione i posti usati per il piano freddo, che in estate non vengono utilizzati”.
Per prima cosa, la data di chiusura del piano freddo è stata posticipata al 30 aprile per permettere alle persone ospitate di seguire le restrizioni previste dal governo per l’epidemia del coronavirus. Quindi fino a quella data di posti non ce ne saranno, se poi i provvedimenti di restrizione proseguiranno e non sarà stato cercato niente di diverso, si rimarrà con un pugno di mosche. E comunque la ratio del provvedimento regionale afferma: “Ridurre al massimo e in tempi strettissimi, nelle carceri dell’Emilia-Romagna, il rischio di contagio da Coronavirus tra detenuti, personale sanitario e agenti di polizia penitenziaria, attuando i provvedimenti previsti dal decreto Cura Italia, ma non solo”.
L’affermazione “tempi strettissimi” a casa nostra significa “subito” e non con i “normali” tempi della politica.
Pertanto come Vag61 ribadiamo la proposta fatta in un comunicato di alcuni giorni fa.
Ci sono due strutture che si possono usare subito:
– L’ex ferrohotel, ex dormitorio della Polfer, di via Casarini a Bologna, di proprietà delle Ferrovie dello Stato.
– L’immobile di proprietà della Regione Emilia-Romagna, dove si tenevano i corsi di formazione professionale dell’ERSA (ex Ente Regionale per lo sviluppo agricolo). E’ nell’area della Città Metropolitana di Bologna, in Via Tolara di Sopra, in località Settefonti, nel territorio del Comune di Ozzano dell’Emilia, proprio di fianco a Villa Torre (il Centro Visita del Parco dei Gessi)
E’ ora di iniziare a confrontarsi subito su indicazioni concrete e non sull’aria fritta.
Di pari passo, riteniamo sia altrettanto importante continuare la campagna per l’amnistia e l’indulto. E’ un movimento di opinione e di lotta che deve crescere nella società, al di là dei numeri che non ci sono in parlamento, per ridurre quel clima di “panico morale” che è stato alla base delle logiche giustizialiste e manettare che tanti danni politici e sociali hanno prodotto in questi anni.
Vag61 – Spazio libero autogestito