VENERDI’ 3 MAGGIO’013 alle 20,30
Dalle 20,30 aperi/cena e alle 21,30 presentazione del romanzo “Ballate sediziose. Amori, rivolte, ormoni e altre storie”, di Valerio Monteventi con la collaborazione di Serafino D’Onofrio (Pendragon Editrice). “Gino Calamita era cresciuto a pane, politica e sfighe sociali. Teneva ancora i piedi nel novecento, ma la sua testa era sparata tra le nuvole. E, spesso, gli piaceva ‘caricare la molla’ sia con le sollevazioni di piazza sia con quelle di ghisa…”.
Reading con Erika Cavina e Mavi Gianni. Le canzoni del libro saranno cantate e suonate da Carlo Loiodice, Riccardo Tabilio, Alessia Oliva, Simone Pelloni e Sergio Deggiovanni.
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Ballate sediziose: la trama
Gino Calamita era cresciuto a pane, politica e sfighe sociali. Teneva ancora i piedi nel novecento, ma la sua testa era sparata tra le nuvole. E, spesso, gli piaceva “caricare la molla” sia con le sollevazioni di piazza sia con quelle di ghisa.
Stanco di storie “ufficiali”, scritte sempre dai vincitori, un bel giorno decide di intraprendere un viaggio con pochissime possibilità di ritorno: scrivere una canzone per i giovani senza futuro, per tenerli lontani dal terreno che frana sotto i loro piedi.
La pensata di Gino non si può dire che non sia bizzarra: inventare una nuova ballata attraverso una seduta spiritica, necessaria per mettersi in contatto con ribelli e barricaderi passati alla storia.
La seduta si tiene durante l’occupazione del cinema Arcobaleno da parte dei “giovani debitori” del movimento di Santa Insolvenza. Attraverso gli spiriti tornano le voci delle rivolte del passato e le canzoni che le hanno accompagnate, dando alla luce una romanza biopolitica di genere gastroduodenale post-dietetico.
A prima vista, può sembrare una cosa da fuori di testa, ma anche dopo…
“Ballate sediziose” è un irregolare patchwork di storie, canzoni e personaggi strampalati. E’ un libro scritto senza l’aiuto di sostanze psicotrope, ma continuamente sopra le righe.
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Ballate sediziose: i personaggi
Gino Calamita
Tutto si può dire di Gino Calamita, ma non che avesse i muscoli “pigri”. Se poi si voleva una descrizione degli standard delle sue prestazioni atletiche, lo si poteva definire un diesel, con la marcia ridotta sempre inserita.
La sua avventura sportiva era iniziata, quasi parallelamente al suo attivismo politico, in una piccola polisportiva del suo paese. La squadra era guidata da un maestro/istruttore che si ispirava a “Il poema pedagogico” di Anton Semonovic Makarenko, che rievocava l’esperienza rieducativa sovietica dei “bjesprizorniki” (i ragazzi abbandonati) nella “Colonia Gor’kij”.
Come ogni buon adolescente che si rispetti, anche lui si costruì il suo idolo: si trattava di Anatoly Pavlovych Bondarchuk, il primo uomo sulla terra a superare i 75 metri nel lancio del martello: una specie di Yuri Gagarin di questa disciplina.
Un giorno Gino aveva deciso che si doveva allenare a correre in montagna per essere pronto, eventualmente, alla guerriglia partigiana, come aveva fatto un suo zio durante la Resistenza. Però aveva bluffato anche a se stesso: lo zio “Toro” (questo era il nome di battaglia del fratello di suo padre) aveva combattuto nella bassa, tra le nebbie e i maceri, si riparava nelle stalle e “seccava” fascisti e nazisti lungo i fossi e le cavedagne della pianura bolognese e, quando occorreva, faceva incursioni in città spostandosi verso Bologna in bicicletta.
O’ Piennolo
La sua specialità era di diminuire l’importanza e il valore simbolico della rivoluzione. Per questa proprietà particolare era considerato il “principe dei contraltari”. A causa di simili posizioni controcorrente, Salvino Guadagno era stato accusato di essere un seguace del movimento neo-borbonico. Ma lui aspirava semplicemente ad essere un ambasciatore della napoletanità nelle regioni del Nord. Il soprannome di O’ Piennolo che gli avevano affibbiato stava a dimostrare che non era un nostalgico della monarchia borbonica, ma un cabarettista prestato alla narrazione storica, un “arrangiatore prestato al socialismo”: «La democrazia italiana ha le caratteristiche del pomodoro, è complicato coltivarla…»
Fu un suo amico ferroviere della Circumvesuviana a chiamarlo così, a riconoscimento del suo “fascino contro il tempo”, come i pomodorini che si raccolgono alle pendici del Vesuvio in piena estate, si appendono attorcigliati intorno a un filo di canapa, compattati nei grappoli e lasciati sospesi.
E lui, orgoglioso dell’appellativo, ribadiva spesso: «Come o’ piennolo, che per vivere non ha bisogno dell’acqua ma del sole… che si raccoglie d’estate ma si consuma, ancora fresco, in autunno e in inverno… io sono un uomo per tutte le stagioni… che, come la pasta, deve essere accarezzato e non strapazzato».
Canaj
Se ci fosse un manuale di mitologia urbana, lui ci sarebbe stato dentro. Tutti, in dialetto bolognese, lo chiamavano “Canaj, il terrore dei vampiri”. Dicevano che aveva l’aggressività di un cane e una fiatella all’aglio che faceva avvicinare solo il diavolo. Ci aveva poi pensato la fantasia popolare a fare il resto: “can” più “aj”, ben bene amalgamati, davano come somma “Canaj”. Verso i 13 anni, non scarseggiando in vigore e prestanza fisica, ebbe il destino segnato. Cominciò col portare ceste e, poco dopo, fu ammesso alla categoria dei facchini. Per entrarvi ci volevano forza, abilità e buona salute, attributi che non gli mancavano. Nel sollevare quintali non fu secondo a nessuno, ma anche a vuotare bicchieri diventò molto bravo. La questione del vino aveva una certa rilevanza nella vita di un facchino, lo asseriva anche un detto: “un facchino, per farsi rispettare, deve essere capace di portare un barile di vino sulle spalle e di tenerne uno dentro lo stomaco”.
Queste doti lo fecero diventare uno degli affiliati più attivi della “Santa Canaglia”.
Il Guignol dei setaioli
Il suo nome era Guignol ed era un pupo. Il suo inventore si chiamava Laurent e, prima di attirare la gente con un piccolo teatro dei burattini, faceva parte dei “canuts”, gli operai setaioli di Lione. Quando nelle manifatture della seta venne introdotto il telaio meccanico, inventato da un tizio di nome Jacquard, si verificò un disastro. Laurent si ritrovò in mezzo a un strada e si incazzò. Coi suoi compagni si rivoltò a quella “rivoluzione industriale” che di rivoluzionario aveva ben poco. Quel progresso continuava a spaccare la schiena a chi restava in fabbrica e toglieva il pane dalla bocca a chi veniva cacciato via. E’ una storia che si è vista tante altre volte, anche più tardi, e Laurent la volle raccontare a suo modo, facendola narrare a Guignol, costruendo un pupazzo in legno che prese la forma del “satiro industriale”.
Zora
Zora era stata trapiantata in tenera età all’ombra del Partenone e, quindi, crebbe per le strade di un paesino, vicino ad Atene. Sarà stato per il nome, ma, fin da bambina, disponeva di una carica ribalda che tutti gli altri suoi coetanei non possedevano. Così come non le mancarono mai il gusto per lo scurrile e per il pecoreccio e le battute di “grana grossa”. La piccola canaglia era però bellissima, faceva perdere la testa a tutti gli adolescenti del paese e il suo fascino la fece diventare ben presto una capa tra i ragazzi della sua età: una vera e propria condottiera di strada.
Aveva appena 19 anni Zora, quando suo padre morì. La disgrazia la trasformò giovanissima in una cosiddetta “zitella d’oro” e, con i mille euro della pensione di reversibilità del genitore, riuscì a togliersi alcune delle sue “voglie” che, nel frattempo, erano cresciute a dismisura.
La sua avvenenza lasciava gli uomini a bocca aperta, la sua “ignoranza” (era lei a definirla così) li faceva restare con la lingua fuori, la sua grinta li intimoriva.
L’altra grande passione di Zora era il calcio: era una delle tifose più accese dell’AEK, la terza squadra di Atene. Sulle gradinate dell’AEK venivano spesso esposti striscioni “anti-nazi” e anarchici e Zora si trovò a suo agio in mezzo a questo gruppo ultras, diventandone un’icona.
Gerard Kronstadt
Gerard Kronstadt, aveva il cognome della piccola repubblica libertaria russa che fu schiacciata dal tallone di ferro del potere sovietico nel marzo del 1921. Era un gradevole signore austriaco che si ispirava al “rigore minimalista”. Un fisico filiforme che si infilava in una collezione di abiti neri da becchino di film western e che, per non farsi mancar niente, si impomatava la testa con una buffa pettinatura alla “Riccardin dal ciuffo”. Gerard era uno “sviluppatore interdisciplinare di contenuti ipermediali”, un lavoro che faranno al massimo altre 27 persone in tutto il mondo. Nel 1979, mentre in Italia c’era chi credeva nella lotta armata e militava nelle formazioni combattenti, lui era già attivo nei media elettronici. La sua passione per l’intermedialità lo portò ad essere la prima, vera, alternativa agli sciamani.
Cupra
Non era donna ma neanche uomo… però era sicuramente fantastica. Aveva un viso tra l’angelico e il furbetto, molto bello e intrigante, un corpo da lasciare a bocca aperta, giusto in tutti i suoi punti, da femmina che più femmina non si può. Due gambe da urlo, con in mezzo un ciondoletto che, sorprendentemente, non stonava.
Alle lenzuola di seta, preferiva quelle di canapa grezza… l’erotismo raffinato l’aveva scoglionata. Non sopportava l’amore affettuoso, lo paragonava a ciò che ti rimane quando hai finito i profilattici e non sai dove andarli a cercare. Il sesso per lei era foga… diceva: “deve mandarti fuori… anche perché, se ne diventi tossico, mica ti rinchiudono a San Patrignano”. Il suo sogno era un bordello a Città del Messico, nel Barrio Bravo Tepito, il quartiere ribelle più temuto del paese di Pancho Villa, “che resiste ancora come una molla… pronto ad accendersi come un fiammifero”.
La Bugadara
Sul manifesto di un locale a luci rosse di Praga c’era scritto: “La Bugadara, la donna fontana più famosa d’Europa…”. In dialetto bolognese, il lavatotoio era “al bugadur”, e il bucato da sostantivo maschile diventava femminile con “la bughè”… da lì, italianizzando un po’, la lavandaia diventava “la bugadara”.
Lei diceva di sè: “Qualcuno ha consigliato di aggiungere al mio vocabolario la parola “concupiscibile”… significa “degna di essere desiderata”… in realtà, io voglio solo ballare… perché mi piace… quindi, se i miei sculettamenti suscitano delle “cattive idee”, il problema non è mio, sono gli altri che sono maliziosi… io invito tutti a non cadere in tentazione, a non cadere nel peccato, perché come disse Matteo: “Chi guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore… Se il tuo occhio ti fa cadere in peccato, cavalo e gettalo via…”.
Fanshen
Trovarsi sulla groppa un nome come Fanshen fa porre molte domande, la prima delle quali è: di chi è la colpa?
La colpa era del padre, un filo-cinese sfegatato, da sempre maoista, che aveva militato in “Servire il Popolo”, un gruppetto marxista-leninista dei primi anni ’70 che aveva come leader un ex elettricista milanese col viaggio dei “matrimoni comunisti”.
La frustrazione di non aver potuto partecipare, per ragioni anagrafiche, alla lunga marcia della rivoluzione cinese l’aveva portato a scaricare sul figlio le sue bramosie politiche, affibbiandogli un nome che era un programma: Fanshen.
Quando il ragazzo fu in età da chiederne conto al bizzarro genitore, ebbe dal padre una risposta di questo tipo: «Fanshen è una delle nuove parole che la rivoluzione cinese inserì nel vocabolario, dopo il 1949. Alla lettera, sta per “rivoltarsi” o per “rovesciare”…»
«Quindi, se mi rivolterò ai tuoi ordini o se rovescerò qualcosa, non potrò essere sgridato o punito», interloquì il figlio.
«Non banalizzare», lo rimproverò il padre, «Fanshen per milioni di contadini cinesi ha significato alzarsi in piedi, scrollarsi di dosso il giogo degli agrari e liberarsi dalle superstizioni… Ti rendi conto della responsabilità del tuo nome?»
«Io direi, piuttosto, del peso…», chiuse il discorso il ragazzo, rendendosi conto che ormai era fatta e Fanshen se lo sarebbe dovuto portare appresso per tutta la vita.
Elio Mirabilia, l’idealista del porno
Elio Mirabilia, nei primi anni novanta, curava una rubrica di porno consigli su un piccolo settimanale bolognese… però era un porno d’avanguardia, che andava oltre le tette, i culi e le bernarde.
I suoi “porno-consigli” li aveva sempre vissuti come un servizio sociale necessario all’incremento dell’attività sessuale tra le mura domestiche.
Mirabilia, aveva poche idee, ma chiare: “La vita è tutta questione di apparenze, di finte e controfinte. L’importante è non abboccare. In fondo, la cinematografia porno è la stessa cosa: finzione e seduzione a buon mercato, ben poco di vero, e così va presa. Quelli che invece la ritengono il momento indispensabile per placare le loro frustrazioni erotico-sessuali hanno sbagliato tutto: per risolvere i loro problemi ci vuole ben altro”.
La lisergica Eva
Assomigliava molto a Françoise Hardy, la cantante francese che, nei primi anni sessanta, divenne, suo malgrado, uno dei simboli della generazione yéyé. Quando lo imparò, disse: «Ma dai, Françoise Hardy… io, nel 1962, non ero ancora nata».
Eva postava sui social network, a ritmi da catena di montaggio. Qualcuno l’aveva chiamata la principessa di Face Book. Foto sfuocate o messe a fuoco, coi suoi lunghi capelli biondi che coprivano e non coprivano le parti di un corpo minuto, esposte con una sensualità semplice, ma molto attraente, e con una visione disincantata della vita.
Se qualcuno contestava che i suoi comportamenti non erano da donna matura, lei rispondeva: «Matura io?… ah ah ah… i frutti maturi cadono dalla pianta e muoiono… Io ho cominciato a masturbarmi con una certa frequenza a quarant’anni e, quasi contemporaneamente, a farmi le canne».
Uno dei suoi amici virtuali un giorno le chiese: «La tua schiena nuda è una sfida al freddo?»
Lei rispose molto freddamente: «I miei “guardoni critici” dicono che mi propongo in maniera boccaccesca senza avere le physique du rôle… Come sono fessi… anch’io non sopporto di essere così sexi, ma qualcuno lo dovrà pur essere… ah ah ah….».
Uccio, lu sassarolu
I sanpietrini sono sassi intelligenti, fanno imparare a non avere paura… nell’uno contro tutti, danno la forza per cimentarsi nei confronti impari… per questo sono diventati icone delle rivolte sociali.
Uccio era uno sbarbatello esile esile, sottile come un giunco, divenne famoso per un sasso lanciato a una manifestazione. Chi c’era lo vide uscire dalle fila del corteo e rimanere solo in mezzo alla strada, con un sasso impugnato senza imbarazzi. Quando la sua mano abbandonò il sanpietrino, la pietra compì una parabola tesa, rabbiosa, sconcertante per il suo effetto. Raggiunto l’apice della traiettoria, si arcuò verso il basso e finì sullo scudo di un poliziotto. La sua forza d’urto piegò la protezione e il sasso deviò sul casco di un altro agente, facendolo crollare come un birillo.
Uccio si sentiva straniero tra gli uomini, tra i sassi invece era completamente a suo agio. Quando li tirava si sentiva un po’ come Davide contro Golia. Gli piaceva scagliarli non solo contro gli uomini in divisa, ma anche contro il vento, verso l’infinito.
Le quattro Marianne
«La liberté guidant le peuple è quel celebre quadro di Delacroix, ambientato sulle barricate dei moti rivoluzionari del 1830, in cui la prima Marianna è quella donna, con la bandiera francese e il fucile, che, allungandosi verso l’alto e incalzando i rivoluzionari che sfumano in lontananza, rappresenta l’anelito di libertà. La seconda Marianna è quella del maggio parigino… quella della foto diventata il simbolo del Sessantotto e che mostra una bella ragazza, a cavalcioni di un amico, intenta a innalzare la bandiera, che poi si scoprirà essere quella del Fronte Nazionale di Liberazione del Vietnam. La terza Marianna si chiama Manuela… è la Ghesa, la più bella del movimento del ’77 bolognese, immortalata sulle spalle di un compagno e protesa verso il cielo con le due mani che tenevano in alto un cartello con su scritto “Vogliamo Parlare”…
La quarta è la Mariamne degli Insolventi, una ragazza italo-tedesca attiva nelle giornate dell’occupazione del cinema Arcobaleno che proponeva, con una certa premeditazione, un look curato nei minimi particolari: un abito nero, rigato alle estremità con fini linee rosse, a cui faceva pendant un braccialetto degli stessi colori. Anche le scarpe erano state collocate con gusto in quel contesto “poco anarchico”, pur se le tinte potevano richiamare quell’idea.
Lorca, il maestro concertatore
Lorca era un insegnante di storia in pensione che, oltre a leggere e a scrivere, aveva imparato anche a suonare. E mica un solo strumento ma la chitarra, il pianoforte, la fisarmonica e, perfino, la batteria. Lorca era il suo nome d’arte, ricavato dall’anagramma del suo nome di battesimo. Era cieco, ma nella musica vedeva avanti più di tanti altri.
Raggiunse, in qualche modo la fama per una “lectio magistralis” sulla “Varšavjanka, il primo inno rivoluzionario global: «Nata come canto contro la tirannia zarista russa, la “Varšavjanka” divenne, tra il 1905 e il 1917, l’inno dei rivoluzionari che si ribellavano al regime degli zar. Dopo la vittoria della rivoluzione d’Ottobre, la canzone entrò stabile nelle hit parade del Coro dell’Armata Rossa. Dal 1920 allargò la sua sfera d’influenza e cominciò a essere cantata e tradotta in diverse lingue europee. Nel 1933 il poeta anarchico Valeriano Orobòn Fernàndez ne scrisse un adattamento spagnolo: “¡A las barricadas!”. Nel 1971, sulle sue note, Oreste Scalzone scrisse e interpretò l’inno di Potere Operaio, “Stato e padroni fate attenzione”.
Chissà se quel poeta proletario polacco dal nome impronunciabile, Wacław Święcicki, poteva immaginare che quella sua canzone, ispirata agli ideali della Comune di Parigi, sarebbe diventata, cent’anni dopo, in Brasile, l’inno del gruppo ultras “Resistência Coral”, colonna sonora del Ferroviàrio Atlético Clube di Fortaleza».
Zirumat
Il suo nome era Zirùmat, sarebbe stato Cerumetto in lingua italica, ma ai tempi in cui era vissuto si parlava sempre in dialetto bolognese. Lo chiamavano così perché non è che fosse proprio pulito, qualcuno diceva che era untuoso come il cerume (al ziròm) delle orecchie. Per lui non era un’offesa, perché avevo saputo da sua nonna che quella sostanza giallastra, in una giusta quantità, era indispensabile per proteggere l’udito. A Zirùmat era sempre piaciuto ravanare col dito mignolo nel condotto dell’orecchio e gli piaceva quell’odore strano che, dopo una lunga camminata, si poteva annusare nella piega tra l’attaccatura della coscia e il basso ventre.
Vi abbiamo raccontato tutto questo non perché vi volessimo disgustare con le sue vanterie, ma per farvi capire come era fatto veramente e quali origini avessero le sue imprese eroiche nell’ambito del “Tumûlt d’la buàza”, la rivolta della merda, avvenuta a Bologna nel 1334.
Martin, il tulipano
Martin era un medico psichiatra “calabro/ameriko/bolognese”, figlio di genitori cosentini, che si trasferirono a Bologna, dove il piccolo Martino nacque, ma dove non fece in tempo a compiere sei mesi, perché tutta la famiglia traslocò a New York. Nella città della grande mela, a 16 anni, si iscrisse al Partito Comunista Americano. Aveva scelto il paese meno adatto per imbracciare la bandiera rossa del marxismo-leninismo. In tutta New York erano in dieci e, quindi, non c’era da andare troppo fieri di quella percentuale (uno su un milione). Fu così che, al raggiungimento della maggiore età, decise di ritornare a Bologna per fare l’Università. Arrivò sotto le Due Torri nel 1977, l’anno in cui tutte le piazze italiane erano piene di ragazzi che contestavano. Si iscrisse a Medicina e prese un indirizzo psichiatrico, perché qualcuno gli aveva detto che molti psichiatri erano propensi a sognare. Si accorse, però, abbastanza in fretta, che non era così. Ritornato negli Stati Uniti, si mise a lavorare come medico in un servizio di aiuto per tossicodipendenti, reduci di guerra e homeless.
Poi, dopo lo scoppio della crisi e della bolla speculativa, si occupò anche di manager della finanza caduti in disgrazia. Il lavoro del gruppo era teso a recuperare gli “ex vampiri della liquidità” colpiti da una sindrome che schiacciava gli individui con immagini atroci di povertà. Se non lo si fosse capito, Martin era un esperto di “drammi dimenticati” e di “coni d’ombra”. Sapeva armeggiare con la solitudine degli altri, ma molto meno con la sua.