Un’inchiesta sociale, perchè?

Il nostro contributo verso il primo appuntamento pubblico della “Fase II” di Laboratorio Bologna, previsto oggi 25 settembre dalle 17,30 a Split in via San Giacomo 11

Un’inchiesta sociale, perchè?

Se ci ponessero il quesito “a cosa serve oggi un’inchiesta sociale a Bologna?”, la nostra risposta dovrebbe essere pronta, diretta, senza indugi.

Vogliamo capire i cambiamenti della città e le sue trasformazioni sociali, culturali e politiche. Lo faremo attraverso un metodo che tenga conto delle pratiche dal basso che abbiamo costruito in questi anni. Utilizzando lo strumento dell’inchiesta sociale saremo supportati dall’esperienza sul campo che ci siamo fatte/i nei luoghi del conflitto sociale, la nostra ricerca si intreccerà con le pratiche sociali e l’impegno politico. Partendo dalle necessità e dalle urgenze delle lavoratrici e dei lavoratori, faremo di tutto affinché problematiche e istanze generalmente trascurate vengano affrontate in modo rigoroso.

Con l’inchiesta intendiamo conoscere, senza compiacimenti, uno spaccato della società bolognese. Cercheremo di raccontarne le radici più profonde, proveremo a descrivere al meglio le pesanti condizioni di sfruttamento che si vivono nei comparti produttivi che hanno marcato significativamente il volto della nostra città. Vorremmo tracciare nuove strade del conflitto sociale, andando incontro ai bisogni (e alle rivendicazioni necessarie per soddisfarli) di chi sta pagando il peso di questi cambiamenti “epocali”.

Con l’inchiesta vorremmo evidenziare che “non siamo tutti sulla stessa barca”, che esiste ancora (e si è pure accentuata) la contraddizione tra capitale e lavoro, che gli interessi di padroni, padroncini, imprenditori o datori di lavoro (chiamiamoli come ci pare) confliggono con quelli e quelle che il lavoro lo devono svolgere e che, oggi, hanno poche certezze perfino sulla loro retribuzione e sul loro orario di lavoro. La frantumazione dei processi produttivi ha prodotto disuguaglianze tra le lavoratrici e i lavoratori scaricando la gravosità degli oneri sulle loro spalle. Quindi, la crescita senza precedenti dei contratti precari e dei part-time non volontari non è avvenuta per caso; così come non dipende dalla volontà divina il fatto che nella maggioranza dei settori produttivi i contratti nazionali collettivi di lavoro non sono rinnovati da anni.

Attraverso l’inchiesta sociale vorremmo capire quanto sia sentita la questione salariale (i salari italiani sono praticamente bloccati dal 1993; dal 1990 al 2020 le lavoratrici e i lavoratori dipendenti del nostro paese sono le/gli uniche/i a subire una perdita del potere d’acquisto della retribuzione media del 2,9%, mentre nello stesso periodo, nell’area euro, mediamente, salari e stipendi sono aumentati del 22,6%) e se interessa la definizione normativa di un livello di retribuzione minima. Vorremmo sondare, nei comparti produttivi che andremo a scandagliare, quali differenze producono contratti di lavoro dipendenti e contratti a prestazione professionale (definiti autonomi, ma in realtà parasubordinati).

Vorremmo supportare con dati certi quella che è oggi una percezione su alcune filiere dell’economia bolognese: ci sono state diverse testimonianze che in molti luoghi di lavoro sono di casa condizioni lavorative che esondano lo sfruttamento per approdare a vere e proprie forme di schiavismo. Su queste situazioni ai margini si basa la struttura produttiva di queste filiere, è diventata una spaventosa normalità del mercato del lavoro, tacitamente accettata dai più.

Al tempo stesso il mercato del lavoro si sta sempre più polarizzando, non è fantapolitica pensare che, avanti di questo passo, si arriverà a una situazione in cui la maggioranza delle/i lavoratrici/ori sarà sempre più sfruttata a fronte di un numero ristretto di utilizzatrici/ori ben pagate/i di dispositivi e di apparecchi digitali di alta tecnologia. Una polarizzazione del lavoro che prospetterebbe un futuro iper-tecnologico e super-competitivo da cui le tante e i tanti schiavizzate/i sarebbero tagliati fuori.

Un sistema socio-economico in cui i soldi non mancano, ma dove le disuguaglianze non si riducono, anzi. Dove la ricchezza che si produce cade in poche mani, mentre la maggioranza delle lavoratrici e dei lavoratori diventa una moltitudine impoverita, essendo considerata, a livello salariale, molto meno di quello che effettivamente “serve”.

Come se ne esce? Non certo con dei palliativi: non bastano le denunce alla magistratura (che per poterle fare non bisogna essere sotto ricatto), la richiesta del rafforzamento dei controlli diventa una vera e propria ipocrisia sapendo che gli accertamenti che sono stati effettuati si sono fermati ben al di sotto della soglia minima di decenza. D’altronde, anche nessun sussidio o salario minimo potrà mai essere così consistente da rendere poco conveniente lo sfruttamento di chi rimane senza tutele. L’unica vera soluzione per sradicare lo sfruttamento del lavoro sarebbe quella di rendere non più ricattabili le lavoratrici e i lavoratori, vale a dire separare il lavoro dal reddito. Solo con un reddito minimo garantito le persone avrebbero la forza e il coraggio di rifiutare e denunciare in massa lo sfruttamento.

Non è una questione di soldi: quelli, volendo, ci sarebbero già.

È invece una questione politica e culturale, una battaglia politico-sociale certo non facile, ma a cui non ci si può sottrarre.

Dopo decenni in cui ben poco si è fatto per impedire questo stato di cose, solo il formarsi di un movimento di massa di carattere conflittuale, con una serie molteplice di azioni, non solo sindacali, può contribuire a trasformare questa situazione indecente.

L’inchiesta sociale nei luoghi dello sfruttamento intensivo è il primo passo per un cambio di mentalità del senso comune e, successivamente, per gettare le basi per nuovi, necessari, percorsi di lotta.

L’inchiesta funzionerà se saremo capaci di costruire contatti con le singole lavoratrici e i singoli lavoratori, ma ben vengano pure gli agganci con gruppi di esse/i. L’inchiesta ci costringerà a un lavoro di discussione tra noi e chi lavora dentro i vari luoghi. Le informazioni che recupereremo saranno strumenti essenziali per l’approfondimento della fase, per la nostra formazione e il nostro lavoro politico. Le vite di una/un precaria/o, di una/un parasubordinata/o, di una/un cameriera/e, di una/un facchina/o, di una/un dipendente di una coop sociale, di una/un cassiera/e di un supermercato o di una/un commessa/o ormai sono condizionate (in peggio) dal loro lavoro, che non garantisce nemmeno un salario decente per vivere. L’inchiesta dovrà sondare lo “sgobbo” quotidiano, le ansie, i tormenti, la cinghia sempre più tirata, i pochi svaghi. Dalla sveglia al mattino fino al ritorno a casa.

Queste notizie saranno fondamentali quando dovremo discutere e mettere in fila gli obiettivi di una piattaforma rivendicativa. Conoscere meglio la realtà ci aiuterà a cercare i modi per cambiarla.

Legare tra loro la conoscenza dei problemi e la volontà di intervenirci sopra, provando a individuare i modi più efficaci per farlo, può aiutare a sostenere le figure nuove dell’attivismo e della militanza in una indispensabile trasformazione della cultura politica dei movimenti.

La storia ricca delle inchieste sociali

Sono ormai decenni che i movimenti non fanno inchiesta sociale. E dire che, quasi sempre, un ciclo di lotte significativo è stato anticipato da una ricerca sul campo.

La proposta originaria di un’inchiesta sulla situazione delle classi lavoratrici fu ipotizzata per la prima volta da Karl Marx nel 1867 come uno dei compiti dei delegati dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori. L’obiettivo era quello di fare emergere quelle circostanze e quelle nefandezze che erano elementi fondanti dell’organizzazione del lavoro e del processo produttivo. Oltre a queste situazioni andavano indagate le condizioni di vita delle/gli operaie/i che erano state deliberatamente coperte e nascoste dai capitalisti.

L’inchiesta si basava su un questionario composto da 101 domande rivolte alle/i lavoratrici/ori. Le domande servivano a realizzare un esame approfondito del processo produttivo capitalistico. L’obiettivo era portare le/gli intervistate/i a una radicale contrapposizione coi loro padroni, dimostrando, a partire dalla loro esperienza, la presenza di interessi antagonistici all’interno dell’organizzazione capitalistica del lavoro. Quell’inchiesta era tesa a minare le relazioni sociali capitalistiche, configurandosi come un esercizio per suscitare riflessioni critiche e per formare soggettività militanti. Intendeva connettere produzione dei saperi e organizzazione politica, facilitando l’incontro tra movimento spontaneo della classe e organizzazione, per sfuggire ad ogni forma di visione mistica del movimento operaio, e per garantire un’osservazione scientifica del grado di consapevolezza della classe stessa. L’obiettivo era creare conoscenza sui sistemi produttivi, lo sfruttamento e le relazioni tra classi contrapposte.

Quasi un secolo più tardi, nel 1961, a fare scuola fu l’inchiesta sociale che Danilo Dolci, insieme a un gruppo di ragazzi, tra cui il diciottenne Goffredo Fofi, fece partire da una baracca di Cortile Cascino, il rione più povero e malfamato di Palermo. Si trattava di un ammasso di catapecchie raffazzonate, sorto abusivamente nel cuore della città, a due passi dai palazzi della politica e della religione, proprio dietro la cattedrale, a fianco del palazzo di giustizia. Quelle/i che contavano avrebbero potuto affacciarsi per vedere lo scempio. Invece, quel luogo lo evitarono, anzi, della sua presenza fecero finta di non accorgersi.

Cortile Cascino era diviso a metà da una vecchia ferrovia che attraversava la città fino al carcere dell’Ucciardone, veniva chiamato cortile, ma lo era per modo di dire, dato che vi abitavano più di mille persone. Centinaia di famiglie asserragliate in stamberghe, senza acqua e senza luce. Al posto delle fognature e dei cessi c’erano dei rigagnoli di liquidi maleodoranti che si ramificavano tra i tuguri. I bambini, vestiti di stracci, sporchi e mal nutriti, durante il giorno giravano per la città a chiedere l’elemosina o a mendicare cibo. Erano alla mercé di tutte le malattie infettive. La tubercolosi e la malaria facevano stragi. Il tasso di mortalità infantile era altissimo.

Gli adulti erano più o meno tutti disoccupati, in molti erano maestri nell’arte di arrangiarsi, per sopravvivere, facevano i cenciaioli: cercavano tra i cumuli d’immondizia, nei retrobottega dei negozi di alimentari o nei depositi delle officine. Raccoglievano cartoni e ferro o metalli con più valore come il rame.

Alla fine degli anni Cinquanta, questa città invisibile, dove si toccava con mano la miseria all’ultimo stadio, divenne uno straordinario laboratorio di intervento sociale per tutto il gruppo di ragazzi che collaborava con Danilo Dolci, in cui la separazione tra proclamare e agire veniva bandita. Per Dolci l’inchiesta andava fatta sul campo, stando in mezzo alle persone in carne e ossa, e non discutendo di temi sociali appresi dalla lettura di giornali, o da reportage e interviste. La cultura non poteva essere slegata dall’azione concreta per trasformare la società. Per mostrare una diversità reale e resistere all’omologazione era necessario «osare e scegliere di essere minoranza… e legare la propria ricerca a una qualche forma di intervento sociale», «perché la verità sta quasi sempre ai margini, lontano dai compromessi del potere e delle istituzioni».

A partire dal 1967 si iniziò a sentire sempre più spesso la definizione di «operaio massa», coloro che fecero circolare queste due parole colsero il senso di un processo produttivo e sociale che aveva modificato, per tutti gli anni Sessanta, la composizione di classe e che riformulava in termini nuovi il rapporto tra spontaneità e organizzazione, tra ceto intellettuale e lavoro vivo.

La scoperta di questo nuovo soggetto sociale avvenne attraverso un’inchiesta “dal basso”, basata sul metodo della “conricerca”, in cui erano gli stessi operai a produrre sapere a partire dalle loro condizioni di lavoro e di vita.

Romano Alquati fu il principale teorico e protagonista di questo metodo di investigazione sociale in cui i ricercatori trasmettevano la conoscenza sui ricercati agli stessi affinché ne facessero un proprio uso, limitando al massimo le differenze tra ricercatori/militanti e soggetti di ricerca. Secondo Alquati la conricerca non era riducibile a una metodologia critica di ricerca sociale ma era una pratica di conoscenza che trasformava sia l’«oggetto della ricerca» sia il ricercatore, puntando a trasformare la realtà, senza avere predeterminato un esito a priori.

La conricerca, per come fu pensata negli anni Sessanta, fu una pratica di intervento in cui i militanti e i soggetti inchiestati si ponevano allo stesso livello con l’obiettivo di creare una relazione tra teoria/pratica/organizzazione. Si dispiegò non quando il conflitto sociale era già in atto, ma prima che si manifestasse, dimostrando la sua capacità di prevederlo e anticiparlo.

Concretamente si trattò di una rielaborazione di un’inchiesta operaia autonoma dalle direzioni sindacali. Nella fase fordista dello sviluppo capitalistico la conricerca indagò sulla composizione di classe (sia come composizione tecnica sia come composizione politica) ancorandola indissolubilmente alla ricerca militante sulla nuova soggettività operaia. Questi furono concetti chiave dell’approccio politico operaista, attraverso i quali, durante gli anni Sessanta, gli operaisti si interrogarono su chi fossero e cosa volessero, da dove venissero e che relazioni vivessero quegli «operai massa».

Concretamente, venne distribuita una miriade di schede e si verificò una risposta che, in quelle dimensioni, sarebbe stato impossibile prevedere. Molte operaie e molti operai, durante la pausa pranzo, uscivano dai cancelli della fabbrica per chiedere i moduli dell’inchiesta e per rispondere alle domande così come avevano fatto prima altre colleghe e altri colleghi di lavoro. C’era una voglia, fino a quel momento compressa, di raccontare quello che avveniva nei reparti, denunciare le cose che non andavano, che le condizioni degli spogliatoi e della mensa erano sotto gli standard minimi di decenza, che andare al gabinetto durante il turno di lavoro non era una richiesta da marziani.

Il problema della dignità in fabbrica venne spesso sottolineato. Più di una denuncia venne fatta sui livelli troppo alti di nocività. La tutela della salute e dell’ambiente di lavoro vennero indicati come obiettivi basilari di una piattaforma rivendicativa. Vennero segnalati diversi provvedimenti disciplinari usati dai capi come strumenti di ricatto e di controllo. Nell’elenco delle pratiche discriminatorie non mancarono le molestie e pure gli abusi sessuali finalizzati a un uso discrezionale delle promozioni e dei passaggi di categoria.

Le lotte dell’Autunno caldo che scaturirono poco dopo, più che un cambiamento delle regole e delle politiche, furono, prima di tutto, una mutazione antropologica del comportamento operaio in fabbrica. Molti, dal versante sindacale, osteggiarono la parola d’ordine dell’egualitarismo, sostenendo che chi propagava gli aumenti uguali per tutti era un irresponsabile che voleva, più del fordismo, appiattire il ruolo dei lavoratori dentro le fabbriche, cancellando, di fatto ogni propensione al merito.

L’egualitarismo, invece, fu un contagio che si estese in tutte le grandi fabbriche del nord. Non si trattò di una massa operaia indistinta, ma di salariati che a partire dalla loro condizione materiale riuscirono a produrre una conflittualità ben saldata alla vita di fabbrica. Era la vita quotidiana degli operai e delle operaie che si era politicizzata senza aspettare il “la” dalle istanze politiche e ideologiche, anzi in rottura con le concezioni dominanti della sinistra politica e sindacale, mutando radicalmente il terreno della lotta di classe, e con esso cambiò la classe stessa.

Sempre restando nel campo delle inchieste sociali, nel ’68 venne praticata anche la cosiddetta “inchiesta maoista”, che lasciava cadere di fatto le ipotesi della conricerca per privilegiare il campo delle denunce, richiamando con forza l’attenzione su casi eclatanti di ingiustizia (i manicomi, le carceri, la droga, la scuola, gli orfanotrofi, i luoghi dello sfruttamento), insomma il malessere sociale del paese nelle sue forme più nascoste e più estreme. Queste denunce furono spesso le premesse a successivi interventi politici.

Questa carrellata storica ha lo scopo di facilitare l’uso di uno strumento di cui si è persa la “manualità”, ma che se riutilizzato nei modi giusti (riaggiornati alle condizioni odierne) può essere molto utile per avviare processi conflittuali che impediscano che Bologna si trasformi definitivamente in una città inaccessibile per lavoratrici e lavoratori, per studenti e studentesse, diventando la terra di Bengodi per le piattaforme della logistica, per Ryanair, Airbnb, Booking e tour operator vari.

Emergenza abitativa e lavoro salariato “povero” non possono continuare a rappresentare la nostra prospettiva di vita.

Vag61 – Spazio libero autogestito

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