VENERDI’ 14 MAGGIO’010 DALLE 20
A 10 anni dalla scomparsa di uno dei più originali ed amati
protagonisti della vita culturale bolognese, una serata di poesia e
musica per dare vita ad un progetto in memoria di Gilberto
Centi, per rendere pubblica la stima e il rispetto che tante persone
hanno provato per lui.
Gilberto Centi, gli anni Ottanta, Bologna ed i suoi poeti.
Un percorso per
storicizzare ed insieme ridare vita ad un poeta, uno scrittore, un
giornalista e soprattutto un amico scomparso dieci anni fa e mai
dimenticato. In questi tempi in cui la memoria è solo a breve termine,
in cui i mezzi sovrastano e bruciano i messaggi, in cui nulla si
conserva, un gruppo di amici di Gilberto propone di ricordare insieme la
penna, il cuore, la parola di chi credeva in questa città come luogo di
cultura aperta e militante.
L’Università come centro di aggregazione e fucina, i sussulti del ’77,
le radio libere, la capacità di reagire alle stragi avevano fatto di
Bologna una meta interessante e Gil vi trovò il terreno adatto alla sua
voglia di gridare e sussurrare poesia, divenendone figlio. Da figlio a
padre il passo fu naturale e così Gilberto allargò le braccia a quanti,
spesso venendo da fuori, chiedevano si essere ascoltati come autori di
versi, musica, prosa, riconoscendone il talento o rinviandoli
schiettamente a tempi più maturi.
Molte di quelle voci sono ricadute nell’oblio, altre risuonano
fortemente anche fuori dalla città ma a tutte, ora, chiediamo di
ritornare, portando con sé un ricordo di Gil, chiuso nella memoria o
concreto, una fotografia, una lettera, una poesia inedita, una frase
scritta di corsa.
Lo scopo è costituire un archivio storico attorno alla figura di
Gilberto Centi e ricordarlo a dieci anni esatti dalla sua scomparsa con
una serie di iniziative cittadine in gemellaggio con l’Aquila, dove
trascorse crebbe e visse prima di trasferirsi sotto le Due Torri.
Le Due Torri, emblema di una città che oggi è immemore del suo passato,
anche recente. Come immemore è più in generale l’umanità dei tempi
nostri, che non riesce ad andare oltre il momento contingente e oltre il
sè. “Io ora” è l’imperativo categorico che fa sì che tutto rapidamente
venga abbandonato in un indefinito nulla della mente. La parola di
stamattina, questa sera non varrà più e tutti presto dimenticheranno ciò
che per un attimo scandalizza o scotta, tutto scomparirà già domani,
quando un nuovissimo, ipertecnologico mezzo ripresenterà un vecchio,
decrepito messaggio, come fosse nuovo, tanto nessuno se ne ricorda.
Eppure oggi, in altri tempi, diversi e lontani da quelli in cui visse ed
operò Gilberto, con caparbietà alcuni amici che condivisero con lui
esperienze e brani di vita, richiamano all’impegno quanti conobbero lo
sguardo terribilmente ironico ed appassionato di Gil, le sue idee, il
suo entusiasmo, la sua penna.
IL RICORDO DI ZERO IN CONDOTTA
E’ stato molto importante il lavoro che Gilberto Centi
ha svolto per Zero in condotta; oggi che la redazione è
composta da molte ragazze e ragazzi che non l’hanno conosciuto, parlare
di lui, scoprire i suoi scritti e la sua personalità, è un’utile
testimonianza su come, anche in un piccolo media indipendente, si
possano fare cose “importanti” e di alta qualità.
Gilberto Centi era un “guerrigliero della
cominicazione”, in questa bella definizione che qualcuno gli aveva
affibiato ci stava il suo essere poeta, saggista, giornalista, utopista,
pensatore libero, osservatore geniale dei movimenti culturali del ‘900,
compagno vero…
E’ morto la mattina del 30 luglio 2000, all’ospedale dell’Aquila,
stroncato all’età di 53 anni da un male incurabile che non ha conosciuto
né misericordia né dilazioni. L’aveva tenuto nascosto a tutti, o forse
persino lui. se n’era accorto tardi.
Gilberto scriveva per il quindicinale Zero in condotta, prima
l’aveva fatto per Mongolfiera e Mattina (inserto dell’Unità).
Nel 1980 era stato uno degli animatori di Radio Carolina,
poi, alla fine degli anni ’90, teneva la trasmissione Radio
Blissett.
Era un finissimo recensore di libri e di dischi, straordinarie furono le
sue interviste (a Renzo Imbeni, Lucio Dalla, Claudio
Lolli, Francesco Guccini, Renato Curcio, Roberto Roversi, Luther
Blissett).
Gil eccelleva pure nei “necrologi”, molto belli e
commoventi quelli su Gianmaria Volonté, Fabrizio De Andrè, Augusto
Daoglio dei Nomadi (“No. Noi non ci saremo davvero, carissimo
Augusto, quando il Sogno o l’Ecatombe travolgeranno il mondo. Più
modestamente ci siamo – ci sei stato – durante questi anni colmi di
segnali…”); esilarante quello del 1999 sul “suicidio
politico” dell’ex sindaco Vitali (“E il tempo del lutto.
Dopo la morte di Lucio Battisti e del grande Kurosawa, ci tocca
registrarne un’altra, seppur virtuale, a noi geograficamente più vicina:
quella di Walter Vitali, quinto sindaco della città di Bologna dal
dopoguerra ad oggi… La scomparsa di Walter Vitali assume aspetti
sconvolgenti, con tinte gialle e inquietanti. I risultati di una
frettolosa autopsia farebbero pensare al suicidio…Vitali – provato dai
ripetuti malanni – in precarie condizioni psicologiche, sembra aver
raggiunto con le proprie forze via della Beverara e lì, dinanzi alle più
alte cariche dell’Ulivo, si sarebbe sparato un colpo di rivoltella
davanti agli astanti che, dopo averlo lungamente applaudito, viste le
condizioni gravissime del ferito ne hanno composto il corpo in una
saletta attigua. La morte sarebbe sopraggiunta dopo qualche ora. A
vegliarne la salma un solo assessore, tale Flavio Delbono, che si
trovava a transitare nei paraggi…)
Gilberto ne sapeva a pacchi di musica e amava
trasmettere la sua cultura musicale ai giovani: “partendo dalla pesante
verità che la musica è un arcipelago, che anzi le musiche sono mondi,
bisogna (sommessamente) ricordare loro che se ci sono i “trisavoli”
della Scienza e della Matematica con i quali occore fare i conti,
altrettanto è per i “trisavoli” della Letteratura e dunque della Musica.
Non si tratta solo di radici, ma di sapere o non sapere”.
Gilberto Centi era anche un organizzatore di censimenti
poetici.
Il primo si tenne, con la collaborazione di Carla Castelli,
tra il 1990 e il ‘91, “a dieci anni dal Duemila”. Ne uscì una
antologia, edita da Momgolfiera, in cui erano contenute tante voci: da
Benni a Celli, da Lolli a Menarini, da Roversi a Scalise fino al meno
noto o al sommerso, tutta la poesia bolognese era rappresentata in una
grande “rassegna”.
Il
secondo censimento venne organizzato da Gilberto, sempre
insieme alla Castelli, con la consulenza di Niva Lorenzini,
nel 1996. L’anno dopo, nel mese di novembre, per i tipi della
Pendragon, uscì “Voci di poesia”. Scriveva Centi nella
nota introduttiva: “Lo sguardo particolare sui “linguaggi poetici”
trovava la sua risposta nel luogo dell’Indagine: Bologna – città di
sottile ma instancabile immigrazione – dove dunque le lingue si
incontrano e fondono. Le poesie pervenute sono state circa
duemiladuecento, confermando così la bontà di un’iniziativa unica in
Italia e che aveva ed ha come suo nucleo una scelta ideale: dar voce ai
molti che ne sono privi, che trovano difficoltà o non conoscono le vie
per comunicare la propria poesia. E qui va fatta una postilla laddove ci
si chiedesse cosa ci aspettavamo da questa operazione. Il nodo – in
realtà – è “politico”. Il nodo è l’impedimento evidente alla libera
circolazione delle idee. “I padroni del pensiero” sono sempre più i
padroni dei grandi sistemi mediatici che di fatto filtrano – con
metodologie strabiche – le potenzialità diffuse”.
È stato tra gli operatori di poesia a Bologna che più ha dato voce ai
giovani e più ha compiuto sforzi concreti perché potessero esprimersi.
Centi svolse anche un’importante attività di saggista. Suo fu, nel
1995, per le Edizioni Synergon, “Luther Blissett, l’incapacità
di possedere la creatura, una e multipla”.
A questo proposito, è interessante fare alcune considerazioni sulla
maniera, assolutamente inedita, con cui Centi costruì il testo di
“Luther Blissett”, con un minuzioso e molto preciso lavoro di
assemblaggio, avvolgendo la ricca documentazione raccolta nel flusso
potente della sua scrittura, a tratti visionanaria. Non ci trovammo
davanti a un trattato sociologico, sarebbe stato sin troppo facile per
Gilberto dotarsi di una bella prosa da sociologo radical-chic, ma lui
non era uno dei tanti “giovanologhi professionisti”. Il suo era prima di
tutto un anti-saggio, una narrazione in cui, con stile personalissimo,
interrogava e dialogava con l’insieme delle fonti che aveva a
disposizione., perché l’unico dispositivo testuale che Centi conosceva
era la deriva, senza nessuna roboante certezza.
Il libro di Gilberto su Luther Blissett fu anche la dimostrazione di
come anche attraverso un saggio si possa raggiunegere un alto livello
d’intensità poetica. Ecco un piccolo esempio: “L.B. è la vendetta
del quotidiano meraviglioso e anonimo sull’odioso spettacolo della
celebrità… è la poesia della rete… è la possibilità di vivere molte vite
a distanza ed essere vissuti da tanti in una sola esistenza. Blissett
comunica definitivamente la propria esistenza rivolgendosi ad un
interlocutore senza classe né ceto: la rivoluzione sta dove si muove
l’intelligenza dell’uomo. Ma c’è anche un’altra “follia”, se così si può
dire, di Luther che a noi sembra particolarmente interessante. Quella
dei “seminatori di caos” nel mondo della comunicazione. Il progetto è
quello di attaccare i media con simulazione di eventi, falsificazione di
dati e interazione manipolatoria.
In effetti, individuare il potere della comunicazione come il più
subdolo persuasore e suggeritore di comportamenti e opinioni, è un atto
di realismo”.
Ma oltre ad essere affascinato dal Luther Blissett Project (Centi
considerava L. B. una risposta possibile, diciotto anni dopo, a quei
mostri massmediali che avevano divorato il Settantasette facendo a pezzi
un grande movimento antagonista), Gilberto amava intensamente Fabrizio
De André.
Su Zero in condotta, la morte del cantautore genovese fu da lui
ricordata così: “La bara scura ha l’odore del legno nuovo, lucidato
a mano. E pesa. Pesa sul cuore e sulle spalle di quattro-cinque milioni
di persone. Dentro c’è un autore di canzoni. Degli italiani il più
grande di tutti, compresi quelli recentemente morti e quelli
momentaneamente vivi.
E sotto la bara si barcolla, si parla, si telefona agli amici. Ad oltre
una settimana di distanza ce ne siamo fatti una ragione: De Andrè è
morto per davvero e del suo livello non è rimasto più nessuno. Questa
morte scavalca il giorno proiettando tutti – chi più chi meno – verso
riflessioni lampeggianti: per esempio sull’opera di questo “amico”
andato e il suo destino”.
Del resto, De Andrè, il 15 novembre 1981, era stato la
causa dell’abbandono della sua prima esperienza radiofonica a Radio
Carolina.
Gilberto era stato criticato dai redattori di “Musica-contro”
che, in seguito alla notizia dell’Espresso in cui si affermava
che De Andrè aveva votato per la DC, sostenevano che le sue canzoni non
andavano più trasmesse.
Centi, salutando i redattori della radio, scrisse: “I compagni con
questo caso De Andrè pongono l’eventalità di creare un precedente dal
quale non sarebbe più possibile venir fuori e che non trova riscontro se
non nella più cupa radiofonia del militantismo di retrovia (canzoni di
lotta a colazione pranzo e cena). Certo, è vero che trasmettere un pezzo
musicale implica un giudizio politico e di valore sullo stesso, ma è
altrettanto vero che ciò non riguarda chi quel pezzo l’ha scritto. Nella
musica come nella letteratura, l’opera e l’autore non possono venir
“trasmessi” assieme perché “nessuno che abbia scritto l’opera può vivere
e rimanere vicino ad essa”. E’ possibile punire J.L.Borges “bruciando”
quanto ha scritto? “Il trittico delle delizie” di Bosh è un prodotto
della cultura borghese… ma guardatelo quel “dipinto borghese”… E’ meglio
farsi una tazza di tè…”.
Gilberto odiava i Soviet, i Politburo, i Pentagoni, “bisognerebbe
immischiarsi a titolo personale” diceva, “se si continua a
demandare alle ‘commissioni’ ogni zona della vita moriremo
commissionati, o per commissione”.
Era anche incostante nei suoi rapporti con gli altri; duro e chiaro fino
a rasentare l’essere spietato quando esprimeva opinioni; severo al
punto che non permetteva a nessuno di girare attorno alle questioni, di
assumere atteggiamenti obliqui.
A dispetto del suo atteggiamento da eremita, a Bologna, Gilberto era
molto conosciuto. Il suo goffo guardaroba era frutto di donazioni di
amici e conoscenti. Viveva mangiando niente, bevendo parecchia
Coca-Cola. Chiedeva spesso prestiti, ma metteva in guardia con ironiche
lettere gli amici sulle sue scarse possibilità di far fronte ai debiti e
alle cessioni temporanee di denaro (che rischiavano così di divenire
definitive).
Viveva, insieme a un “bastardino”, in via del Fossato,
in una stanzetta traballante dalle dimensioni di un ripostiglio, dove
gli oggetti si incastravano millimetricamente in una sorta “ordine
dimesso”, a rischio perenne di un “effetto domino” o di crollo da
castello di carte. C’era qualcosa di tecnologico in quei dieci metri
quadri, anche se Gilberto continuava a scrivere, battendo sui tasti di
una vecchia Olivetti22, con sottofondo la musica gracchiante di una
radiolina mai spenta.
La sua era una parlata da adolescente schizofrenico, inconfondibile, con
quelle parole che si mostravano sempre così faticose, ma che in realtà
erano sempre scelte con cura e calibrate. Quel suo magnifico e nobile
interesse per gli altri che lo ha sempre contraddistinto, il suo modo di
prendersi a cuore le cose, di viverle con lo stomaco erano vera e
propria “ossessione da poeta”.
Anche il messaggio nella sua segreteria telefonica aveva quell’impronta:
“6-4-4-8-531, lascia un segno: non andrà perduto”.
La sua scrittura si nutriva solo di personali suggestioni e vaghe
immagini, quasi dei presagi. “Arriveranno gli ultimi o i penultimi
Antagonisti del nostro tempo e senza confini anagrafici di
riconoscimento. / Stanno arrivando. Li riconosceremo da quanto fin qui
abbiamo ricostruito o intuito. / Ma chi scrive non è tra quelli che
aspettano-l’arrivo-dei-soccorsi./ Ci siamo, con altri minuscoli
compiti”.
Gilberto appartiene a una stagione delle nostre vite e a un’epoca che
forse si è chiusa. Lui era la vita esplosa in assoluto, in quella
stagione aprì le porte della percezione, andò “oltre” il bordo
dell’impossibile, ma con l’intensità delle cose condivise… lui la
condivisione totale la conosceva bene.
Perché si potesse dare inizio a qualcosa di diverso, prima che il Grande
Fiume si smarrisse in mille rivoli dove ciascuno riguadagnava la sua
singola identità, forse ci sarebbe stato bisogno ancora della sua
scrittura:”Una cosa sola era certa, perché inequivocabile: eravamo
giovani. Per il resto di noi risultava soltanto la pervicace proiezione
mentale dei Vecchi Geometri del Tempo circa una condizione estranea che
credendo di capire si ostinavano a spiegare. Poi dal fastidio passai al
sorriso.
Ci ‘pedinavano’ annotando i nostri ’segnali’ che diventavano
dissertazioni sulle terze pagine e gli special televisivi. Ci definivano
per possederci e nell’ovvia impossibilità della riuscita come
defraudati, caparbiamente si avventuravano in zone intravviste solo
dall’aereo. Così quando scendevano e si inoltravano in piazze, strade e
vicoli perdevano l’orientamento, aggravando il loro stato confusionale,
utilizzando le sole mappe in loro possesso: quelle ‘fuori corso’ del
loro tempo. Così mostravano a noi quel che non eravamo, irriconoscibili,
con radi agganci alla realtà, complessivamente stravolta. Talmente
lontani non se ne accorgevano. Nella convinzione non dico d’averci
sfiorato ma d’essersi calati in un’età dell’Oro e del Buio che non gli
apparteneva. Eravamo un colorito allarme avanzante, con suddivisioni
manichee neanche tra buoni e cattivi.
Leggevano in aramaico quando noi scrivevamo in cirillico.”